LA POLEMICA

Le critiche ai referendum sulla giustizia di Nadia Urbinati su Il Domani di ieri sono sia di carattere generale che sui singoli questi. Ma non convincono né gli uni né gli altri. Appartengono alla prima categoria quelli che contestano la stessa scelta dello strumento, in quanto: la materia sarebbe complessa, i quesiti “astrusi”.

A Cara Urbinati, vogliamo tornare alla “democrazia” notabilare?

Le critiche ai referendum sulla giustizia di Nadia Urbinati su Il Domani di ieri sono sia di carattere generale che sui singoli questi.

Ma non convincono né gli uni né gli altri.

Appartengono alla prima categoria quelli che contestano la stessa scelta dello strumento, in quanto: la materia sarebbe complessa, i quesiti “astrusi”, l’obiettivo segnato da una “diffidenza” nei confronti della magistratura. La conclusione è che su tale materia non si sarebbe dovuto far votare i cittadini: «Dovrebbero essere il governo e il parlamento a impegnarsi responsabilmente e con competenza».

Sarebbe innanzitutto interessante sapere se l’autrice ritiene che la stessa “diffidenza” abbia animato anche il Presidente della Repubblica allorché, in occasione del suo discorso dopo la rielezione, ha affermato, tra l’altro, che «I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia», né «avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che … incidono sulla vita delle persone». Non si trattava ovviamente di preoccupazioni teoriche, ma della consapevolezza di problemi reali che, negli ultimi anni, sono stati squadernati da scandali e vicende preoccupanti.

Ma anche sul piano teorico, sorprende che una studiosa del calibro della Urbinati consideri la “diffidenza” verso il potere ( legislativo, esecutivo, giudiziario…) un atteggiamento criticabile. Il costituzionalismo negli ultimi due secoli si è sviluppato proprio per superare visioni “mistiche” del potere. Il punto di partenza è infatti che il potere è strutturalmente esposto al rischio di torcersi in abuso e che dev’essere sempre limitato, controllato, scrutinato. La “diffidenza” di cui parla Urbinati non è altro che la realistica consapevolezza ( avvalorata peraltro dalle vicende recenti) che non si deve mai abbassare la guardia. Appartiene alle visioni mistiche invece l’idea che la magistratura, in quanto pubblico potere, sia di per sè estranea a questi rischi. Un poter immune. Il che non ha nulla a che vedere con uno sbrigativo giudizio “morale” di condanna. Come notava Montesquieu nell’elaborare proprio la sua teoria sul potere «anche la virtù ha bisogno di limiti». Impostare i ragionamenti sulla divisione tra chi crede nella virtù dei magistrati e chi invece la nega è una banalizzazione che elude il cuore delle questioni legate al potere. Anche della magistratura.

Quanto poi agli argomenti che liquidano la legittimità di un intervento mediante referendum invocando l’esclusiva del Parlamento, essi tradiscono una visione elitista della democrazia e contraddicono la funzione di questo istituto nell’equilibrio tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, così come lo vollero i costituenti. Dire che i cittadini non debbano occuparsi di questioni complesse, non solo nega la storia dei referendum, alcuni dei quali ( si pensi a quelli sulle leggi elettorali o sulla responsabilità civile dei giudici) hanno riguardato questioni altrettanto se non più complesse, ma soprattutto nega l’idea stessa della democrazia. Nella quale, ci piaccia o no ( e a me sembrava che alla studiosa Urbinati piacesse), l’analfabeta e l’intellettuale hanno lo stesso diritto di decidere e pesano allo stesso modo. Vogliamo tornare alla “democrazia” notabilare o al voto multiplo che consentiva, ad esempio, ai professori universitari di valere per due?

Il problema non è il diritto di deliberare, ma semmai gli strumenti per conoscere. E, a giudicare dal livello di informazione che offerta su questi sui referendum, conoscere non è esattamente un risultato facilmente conseguibile. Inviterei la Urbinati a fare un piccolo sondaggio con le persone che in Italia di incontrano per strada e verificare quanti conoscano, ancor prima del merito, il fatto ( semplice, non complesso) che il 12 giugno si svolgeranno dei referendum.

Quello dell’informazione è un tema che investe direttamente di responsabilità chi partecipa al dibattito. Per questo anche le specifiche motivazioni, pro e contro i singoli quesiti referendari, andrebbero approfondite uscendo dalla narrazione sloganistica e dal rischio di generare equivoci anziché aiutare a capire, cosicché poi ciascuno decida secondo il proprio giudizio.

Su questo, spiace dirlo, le riflessioni della Urbinati non aiutano. Invocare la bontà di un certo argomento solo perché lo si legge nel “documento del comitato del NO”, non mi pare un gran contributo. Soprattutto allorché in quel documento si affermi che il referendum sull’applicazione delle misure cautelari, impedirebbe di colpire, ad esempio un “coniuge violento”. Si tratta di un’affermazione semplicemente falsa, perché il referendum non riguarda minimamente le misure cautelari nel caso sussista il rischio che siano commessi “gravi delitti con mezzi di violenza personale”. In questo caso, si tratta solo di cattiva informazione.

Così come discutibile è l’argomento che la separazione delle funzioni priverebbe il pubblico ministero della altisonante “cultura della giurisdizione” senza che ci si domandi se invece, proprio la commistione non rischi di alimentare una “cultura dell’inquisizione” anche in chi giudica. Né aiutano gli argomenti a effetto che evocano obiettivi di “normalizzazione” della magistratura, con tanto di citazione di Berlusconi e Orbàn, per una soluzione ( quella della separazione) che è praticata in tutti gli ordinamenti liberal- democratici più avanzati, che i costituenti avrebbero voluto attuare se solo il codice di procedura penale, all’epoca, fosse stato quello che è oggi, e che fu sostenuta con argomenti “laici” da Giovanni Falcone, il quale, già, allora prevedeva che sarebbe stato accusato, per questo, di attentato alla magistratura.

Infine, per limitarci solo a un altro esempio, contestare la legittimità della scelta che i magistrati siano valutati da un organo misto ( che comprenda avvocati e professori) e non solo dai propri colleghi invocando nuovamente l’obiettivo della normalizzazione, non ripropone solo l’idea misticheggiante di magistrati immuni dal rischio di tentazioni corporative. Dimentica, soprattutto che la soluzione di una composizione mista degli organi che si occupano dei magistrati ( anche per irrogare misure disciplinari, ad esempio) è esattamente quella che ha scelto il nostro costituente istituendo il Consiglio Superiore della Magistratura. Informare e discutere per poter deliberare con cognizione di causa è un valore che dovrebbe essere caro a tutti, a prescindere dalle singole scelte politiche. Invocare, a corrente alternata, la Costituzione, omettendo quello che di essa non ci piace, mentre si paventano complotti rispetto al resto, appartiene anch’esso alle visioni mistiche e alle guerre ideologiche. Esattamente ciò di cui non abbiamo alcun bisogno.

A meno che, come suggerisce la Urbinati, non si scelga di optare per l’astensione. In quel caso non c’è nemmeno bisogno di informarsi, come non si informa quell’alta percentuale di astensionisti cronici che ha deciso, spesso per senso di impotenza, di disinteressarsi e basta. Una bella scorciatoia per chi invece è così risolutamente convinto delle proprie ragioni. Una scorciatoia che non mi pare esattamente riflettere l’impegno etico del cittadino attivo che traspare da tanti altri scritti della Urbinati.