La procura di Milano ha iscritto l’attivista sul registro degli indagati. Rimane il nodo della competenza territoriale. Il fascicolo è ora in mano alla toga del caso dj Fabo

Ventiquattro ore dopo essersi autodenunciato in una caserma dei carabinieri di Milano, il Marco Cappato è stato iscritto sul registro degli indagati, con l’accusa di aiuto al suicidio per aver accompagnato la signora Elena, una 69enne veneta affetta da tumore polmonare irreversibile con metastasi, a morire con la procedura del suicidio assistito in Svizzera. Un atto dovuto, quello compiuto dalla procura meneghina, e che potrebbe costare al tesoriere dell’associazione Luca Coscioni fino a 12 anni di carcere, come previsto dall’articolo 580 del codice penale. A gestire il fascicolo è il dipartimento Salute e lavoro, diretto dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano. Ovvero la stessa magistrata che, nel caso della morte di dj Fabo, che vedeva imputato proprio l’attivista radicale, riuscì a portare davanti alla Consulta la questione di legittimità della norma che prevede il reato di aiuto al suicidio. In quell’occasione, la toga si lanciò in una requisitoria appassionata, sottolineando come Cappato non avesse aiutato nessuno a suicidarsi, ma soltanto ad esercitare il proprio «diritto alla dignità». Proprio per tale motivo, l’accusa chiese l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» e, in subordine, l’invio degli atti alla Corte costituzionale per valutare la legittimità dell’articolo 580 del codice penale. Grazie a quel processo - che si concluse con un’assoluzione per Cappato -, il giudice della legge stabilì dei paletti grazie ai quali, oggi, è possibile accedere al suicidio assistito anche in Italia. Paletti che, però, non bastano, come dimostra il caso della signora Elena, vittima, secondo Cappato, di una discriminazione. Affinché l’aiuto al suicidio non sia reato, oggi, è infatti necessario che la persona che vuole accedervi esprima la volontà di porre fine alla propria vita in modo lucido e consapevole, che sia affetta da una patologia irreversibile, che provochi una sofferenza fisica o psicologica insopportabile e che sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, ovvero la condizione nella quale si trovava Fabiano Antoniani. Ma tali “regole” escludono chi, come Elena, pur avendo aspettative di vita più brevi e dolorose non abbia necessità di macchine per sopravvivere. Da qui la necessità di una nuova battaglia di disobbedienza civile, che ha spinto il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni ad accompagnare la donna a Basilea, per poi tornare in Italia e autodenunciarsi. Da affrontare, ora, c’è il nodo della competenza territoriale, che potrebbe costringere la procura di Milano a trasferire gli atti a quella di Venezia. Se, infatti, la procura ritenesse che il reato sia stato commesso all’estero, l’indagine resterebbe a Milano, luogo di residenza di Cappato. Ma se i magistrati dovessero arrivare alla conclusione che l’azione di disobbedienza civile sia iniziata a Spinea, dove viveva Elena, allora la competenza si sposterebbe automaticamente in Veneto. Cappato, infatti, ha chiarito di aver contribuito alla scelta di Elena andando a prenderla a casa e accompagnandola con la sua macchina a Basilea e contribuendo anche alla traduzione dei documenti medici, una volta arrivati in clinica. «Ho spiegato anche che Elena era perfettamente consapevole di non rientrare nei casi previsti dalla sentenza della Corte e ho fatto presente che in futuro, se sarò in condizione di poterlo fare e se mi verrà chiesto, continuerò a fornire questo tipo di aiuto - ha spiegato -. Ovviamente, questo potrebbe avere una rilevanza sul piano giuridico per quello che viene chiamato rischio di reiterazione del reato». Da qui anche l’attesa di una possibile richiesta di misura cautelare, eventualità, ha spiegato al Dubbio, che accetterebbe con serenità, proprio per portare fino in fondo la sua battaglia. Una battaglia che avrebbe dovuto essere sposata anche dalla politica, alla quale la Consulta, con la sua sentenza del 22 novembre 2019, aveva dato un anno di tempo per legiferare. Tutto, però, è rimasto immobile. «La discriminazione violenta contro le persone malate non è stata superata nelle aule parlamentari - ha dunque sottolineato Cappato -. Spero possa accadere in quelle di tribunale». Con la prospettiva, dunque, di riportare la questione all’attenzione della Corte costituzionale.