Non si può diagnosticare un disturbo borderline di personalità “associato” ad un disturbo depressivo persistente con ansia con un solo colloquio. E ancora: non si può prescindere dai fatti traumatici del passato, specie se mai messi in dubbio: farlo significa assecondare una «deriva antiscientifica». A scriverlo sono 130 psicoterapeuti, firmatari di un manifesto che critica la consulenza che ha portato alla condanna di Claudio Foti, lo psicoterapeuta fondatore della onlus Hansel & Gretel condannato a novembre 2021 in abbreviato a 4 anni nel processo “Angeli&Demoni”, sui presunti affidi illeciti nella Val d’Enza.

Una consulenza fondamentale, nell’economia del processo, perché è proprio su quella base che Foti è stato giudicato colpevole di aver provocato, con la sua terapia, lesioni gravissime ad una giovane di 17 anni, mandata da lui dal Tribunale dei minori di Bologna dopo aver rivelato gli abusi subiti da ragazzina. Nel manifesto, i professionisti - tra i quali Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta fondatore di una fra le più importanti scuole italiane di psicoterapia - non entrano nel merito della vicenda processuale, ma esprimono preoccupazione «per una deriva antiscientifica che mette in pericolo l’esigenza di migliaia di operatori che hanno bisogno di svolgere la propria attività in condizioni di serenità, e migliaia di pazienti che hanno bisogno di credere in una prassi clinica affidabile, governata dallo scrupoloso rispetto delle conquiste della scienza e della professione». La stessa preoccupazione espressa dall’avvocato di Foti, Luca Bauccio, che oggi replicherà in Corte d’Appello alla richiesta dell’accusa di confermare e anzi inasprire la condanna inflitta in primo grado.

Il nocciolo della questione è il metodo utilizzato dalla consulente del pm per arrivare a certificare che siano state proprio le domande formulate da Foti a determinare l'insorgenza di una patologia nella giovane, partendo da un presupposto: la diagnosi è stata effettuata un anno dopo il termine della psicoterapia, con un solo incontro tra la psicologa forense incaricata dal pm e la giovane e senza la somministrazione di alcun questionario.

Ma non solo: «Dopo quell'incontro, nessun altro colloquio si è tenuto, né è stato dato riscontro di cure intraprese dalla paziente successivamente alla diagnosi». Insomma, tutto fuorché una procedura scientifica, dal momento che nella relazione manca anche qualsiasi riferimento alla storia della giovane, ovvero al «riferito episodio di abuso all'età di 4 anni, riferita violenza sessuale all'età di 13 anni, separazione molto conflittuale dei genitori, violenze subite nel contesto familiare dalla madre da parte del padre e da parte del proprio fratello, abbandono per anni da parte del genitore, atteggiamenti di pesante squalifica e colpevolizzazione patiti dal padre, rifiuto e contrapposizione reattivi da parte della ragazza, comportamenti trasgressivi, stati depressivi, interruzione della frequenza scolastica, marcata svalutazione di sé, consumo di sostanze stupefacenti». Eventi verificatisi prima dell'inizio della psicoterapia e sulla cui base il Tribunale per i minorenni l’aveva inviata da Foti.

Nonostante questo, la consulente ha ricollegato il disturbo «alle domande asseritamente induttive dello psicoterapeuta proprio sugli eventi di abuso, eventi che peraltro erano già stati riferiti dalla ragazza, alla stessa madre e in diversi contesti e a diverse figure». Proprio per tale motivo, «noi, studiosi e professionisti, dopo la lettura della consulenza affermiamo in scienza e coscienza che essa ha proceduto alla diagnosi del grave disturbo di personalità borderline senza il rispetto dei criteri indicati dalla procedura prevista dal Dsm V e applicati nella pratica professionale quotidiana da psicologi e psicoterapeuti». La consulenza ha anche ritenuto irrilevanti gli eventi del passato della giovane, nonostante gli stessi «per pacifica e concorde convinzione si collocano con forza causale nella eziopatogenesi del disturbo di personalità borderline o del disturbo depressivo con ansia».

Affermare che un disturbo di personalità possa essere determinato da una ipotetica formulazione di domande suggestive nel corso di una psicoterapia «è un'affermazione totalmente priva di fondamento dal punto di vista scientifico». E il percorso che ha portato la consulente a tale conclusione e «a pronunciarsi su una psicoterapia affermandone il carattere iatrogeno, è frutto di un processo antiscientifico ed aprioristico».

Tra gli studiosi firmatari del manifesto ci sono anche Dante Ghezzi e Georgia Vasio Perilli, supervisori Emdr Europe Association, che hanno analizzato le videoregistrazioni della terapia svolta da Foti sulla giovane che sarebbe stata vittima del suo “metodo”. Analisi messa nero su bianco in un documento, nel quale viene sottolineato come Foti «abbia applicato correttamente ed efficacemente il metodo Emdr», sotto la supervisione di Luca Ostacoli, esponente di spicco di tale disciplina. La conclusione è semplice: lo psicoterapeuta ha proceduto con «delicatezza» e «correttezza», nonché con «il dovuto atteggiamento neutrale», tant’è che la stessa paziente, nell’ultima seduta, «esclude decisamente che il lavoro svolto col dottor Foti possa avere suscitato un odio verso il padre prima inesistente», affermando di essere più consapevole del proprio passato, ma di non provare, per ciò, maggiore malessere: «Adesso non lo sento più questo dolore - ha infatti affermato la giovane -, c’è, però non così tanto da pensare di uccidermi». Proprio per tale motivo, secondo i due esperti, «il comportamento di Foti» durante le sedute «si è rivelato non induttivo, efficace e corretto». L’esatto contrario di quanto sostenuto in un’aula di giustizia.

RispondiRispondi a tuttiInoltra