Ancora un teste da sentire con le garanzie difensive. E questa volta il colpo di scena è la decisione della pm Valentina Salvi di associarsi alla richiesta dei difensori di Federica Anghinolfi, Rossella Ognibene e Oliviero Mazza, chiedendo che la psicologa Anna Ferrari, ascoltata durante le indagini come persona informata sui fatti, si presenti in aula accompagnata da un avvocato, come persona potenzialmente indagabile. Si tratta del terzo caso per il processo “Angeli e Demoni” sui presunti affidi illeciti in val d’Enza, dove Ferrari, co- firmataria di alcune relazioni accusate di falso, era stata convocata come testimone. Ora, invece, la sua posizione cambia, data la decisione del collegio di accogliere la richiesta presentata da difese e accusa. L’udienza di mercoledì ha registrato però anche la sfilata di alcuni testimoni che hanno raccontato le circostanze relative all’episodio in cui i genitori della piccola Martina (nome di fantasia) fecero ingresso in ospedale, a seguito del ricovero della piccola per un episodio di paresi temporanea del braccio e della bocca con concomitante scialorrea e afasia.

I genitori erano obbligati ad effettuare solo incontri protetti con la bambina, così come previsto dal Tribunale per i minori, circostanza che dunque imponeva l’intermediazione degli operatori. Ciononostante, stando a quanto appuntato nel diario infermieristico, erano arrivati fino alla stanza dove si trovava la bambina, in presenza delle affidatarie, con le quali nacque un diverbio, tanto da essere allontanati dal personale ospedaliero con la minaccia di chiamare le Forze dell’ordine. In aula, mercoledì, è stato ascoltato il dottor Daniele Frattini, neuropsichiatra che ha avuto in cura Martina durante il ricovero. Il teste ha riferito dell’insistenza nel vedere la figlia da parte della madre, che venne rassicurata anche in ordine al fatto che le sarebbero stati riferiti gli esiti degli esami strumentali. Ciò nonostante, dopo essersi in un primo tempo allontanata, si era poi presentata – unitamente al padre – nella stanza della piccola senza alcuna autorizzazione e senza la presenza necessaria di educatori che accompagnassero l’incontro.

Successivamente a questo episodio, come già raccontato dal Dubbio, Martina - allontanata dai suoi genitori dopo essere stata abbandonata da sola in casa, al punto che era stata la stessa minore a chiamare i carabinieri - aveva scritto sul suo diario di essersi spaventata, temendo di dover essere allontanata dalla casa delle affidatarie. In una lettera, inoltre, la bambina si era detta delusa dal comportamento di suo padre, che le aveva mentito affermando di essere stato autorizzato ad entrare in ospedale. «Caro papà - scriveva Martina il 4 novembre 2017 - mi manchi tanto però ti chiedo una cosa perché mi hai mentito in ospedale dicendo che tu ti sei messo d'accordo con Francesco Monopoli ( assistente sociale a processo, ndr) che potevi venire? Sei obbligato a rispondermi e un'altra cosa: tu mi hai già mentito dopo il patto che non dicevamo le bugie? Ciao e ricordati di rispondermi con la verità altrimenti non mi fiderò più di te. Ciao! Baci».

La veridicità della lettera, contestata dall’accusa, è stata invece confermata dai messaggi depositati nelle settimane scorse in udienza: la lettera, infatti, era stata inviata a Monopoli dalla famiglia affidataria, esattamente così come poi è stata consegnata al padre. Secondo l’accusa, Monopoli avrebbe scritto il falso nel descrivere un episodio di due giorni dopo, nel quale la madre si era dimostrata con atteggiamento aggressivo; tale circostanza viene confermata invece dalla coordinatrice infermieristica, Letizia Coradazzi, che pur non ricordando parole di minaccia rammentava però un atteggiamento fisico della madre che l’aveva costretta ad indietreggiare per due metri fino alla porta del reparto; la madre aveva infatti manifestato intenzione di entrare in reparto nonostante il rifiuto del personale ospedaliero. L’udienza ha però chiarito ulteriormente un’altra circostanza, ovvero il fatto che, fino a quel momento, non fosse stata formulata alcuna diagnosi di epilessia, dal momento che solo a seguito del ricovero del 10 ottobre 2017 sono stati eseguiti gli esami diagnostici che hanno consentito di ipotizzare l’esistenza di una sindrome di epilessia rolandica, dunque benigna, all’esordio. Un fatto confermato dalle parole di Frattini e dalla sua relazione, dalla quale si evince come solo a seguito degli esami strumentali, effettuati nei tre giorni di ricovero, sia stato possibile formulare una diagnosi.

Secondo la procura, invece, i servizi sociali avrebbero volontariamente taciuto la diagnosi a loro nota di epilessia in alcune relazioni risalenti a diversi mesi prima del ricovero, relazioni nelle quali le due crisi registrate a gennaio e aprile erano state classificate, insieme ad altri comportamenti tenuti dalla bambina, come possibili sintomi di una sindrome dissociativa collegata ad esperienze traumatiche vissute nella famiglia di origine. Come confermato da Frattini in aula, però, fino a quel momento nessuna ipotesi poteva essere effettivamente esclusa. E per effettuare una diagnosi certa non sarebbero stati sufficienti nemmeno l’elettroencefalogramma - che dava delle tracce compatibili con l’epilessia rolandica - e la risonanza magnetica eseguiti a seguito del ricovero ospedaliero: solo attraverso il follow- up successivo, cioè in assenza di episodi ulteriori di epilessia frequenti, ha spiegato Frattini, era possibile escludere patologie diverse.