Nessuna pressione, nessuna richiesta di scrivere qualcosa di falso, nessuna pretesa di omettere qualcosa. Sono unanimi le voci delle tre assistenti sociali ascoltate ieri nel processo “Angeli e Demoni” sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Che hanno di fatto smentito ogni condizionamento da parte di Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale, e Francesco Monopoli, assistente sociale, considerati ai vertici di un sistema che manipolava le carte per allontanare i bambini dalle famiglie.

E per farlo, secondo l’accusa, venivano ipotizzati abusi inesistenti, la cui ricerca avrebbe rappresentato una sorta di chiodo fisso, tanto da imporre, nell’analisi di ogni caso, un “taglio” orientato all’abuso. A sostegno di tale accusa le sommarie informazioni testimoniali delle assistenti sociali raccolte subito dopo gli arresti, stando alle quali Anghinolfi e Monopoli «ci inducevano ad adottare già nell’immediatezza o dei provvedimenti di allontanamento - si legge nella sit contestata all’assistente sociale Barbara Sebastiani - ovvero di redigere relazioni, con un preciso “taglio”, tali da poter ottenere un mandato da parte dell’Ag di tutela del minore».

Ma è stata proprio Sebastiani, nel corso dell’esame, a disconoscere le esatte parole messe nero su bianco sul verbale redatto dai carabinieri. «Non sono tutte parole della mia bocca», ha affermato in aula, definendo quella sit una «sintesi» di frasi pronunciate in un momento di «forte emotività», data la convocazione in caserma subito dopo il blitz. Stando a quanto spiegato da Sebastiani in aula, dunque, non vi sarebbe stato una sorta di “ordine di servizio” rispetto al «taglio» da dare, che «dipendeva dai casi». E solo quando c’erano sintomi di malessere che potessero far pensare ad un abuso si valutava quella possibilità.

La difesa di Monopoli, rappresentata dagli avvocati Nicola Canestrini e Giuseppe Sambataro, ha dunque contestato, ancora una volta, le modalità di verbalizzazione dei sit, dal momento che un’ora e mezza di colloquio è stata sintetizzata in due pagine con una sola domanda rispetto alle tante - come confermato dalla teste - fatte dalla polizia giudiziaria. Tra le domande non verbalizzate anche quella in cui, in un primo momento, veniva chiesto all’assistente sociale dove volesse ricevere le notifiche, richiesta tipica dei casi in cui sia necessaria l’elezione di domicilio per gli indagati. Tant’è che la stessa teste, andando via dalla caserma, chiese informazioni su un caso di cui aveva parlato e che aveva seguito personalmente, per comprendere se fosse tra quelli attenzionati dall’indagine. Gli interrogatori sono avvenuti nel pieno della tempesta mediatica, in un momento in cui «eravamo reduci degli arresti», ha affermato ancora Sebastiani. E il clima delle dichiarazioni di quel periodo, ha aggiunto, poteva essere influenzato dai «dissapori» del momento.

A negare pressioni, sempre su domanda di Canestrini, è stata anche Jessica Cattalini, che ha prestato servizio in Val d’Enza dal 2015 al 2019. Cattalini ha riferito di un caso in cui c’era un possibile abuso su una bambina, rientrata a casa dal padre con la vagina arrossata. Nonostante ciò, Monopoli non avrebbe proposto alcun allontanamento, circostanza che cozza con l’ipotesi di una “fissazione” per l’affido che avrebbe caratterizzato tutti i suoi interventi. Cattalini era tra le assistenti sociali presenti nella chat “Fai sbronzare la Ceci”, un condensato di decine e decine di messaggi tra i nuovi arrivati in Val d’Enza dai quali l’accusa ha raccolto molti elementi critici nei confronti degli imputati. In tale chat, infatti, Monopoli era oggetto di aspre critiche e commenti velenosi, dai quali, secondo la procura, emergerebbero anche prove del “metodo” di lavoro oggetto dell’indagine.

La teste ha però ridotto la portata di quelle chat, definendole «goliardiche» e «ironiche», di certo «non professionali», insomma, uno spazio in cui sparlare dei colleghi e degli psicologi. In aula è comparsa anche l’assistente sociale Valentina Leone, il cui esame si è concentrato sulla presunta setta di pedofili che, stando all’accusa, ossessionava il servizio sociale. Leone ha confermato che la psicoterapeuta Nadia Bolognini, durante una supervisione, aveva introdotto il tema di una ipotesi di setta, in relazione al caso di due bambine che però non rientrano tra quelli finiti a processo.

Dalla sua testimonianza è emerso che ciò che doveva essere omesso dalle relazioni non erano, però, i fatti, ma la suggestione della setta, dal momento che non c’erano elementi concreti, ma solo un’ipotesi. Ipotesi avallata dai giornali locali, che dal gennaio all’aprile 2015 hanno pubblicato più servizi su presunti riti satanici e sulla possibile esistenza di una setta, con notizie di polli sgozzati e dissanguati in un cimitero, dove accanto alle carcasse decapitate era stato rinvenuto anche un biglietto bruciato con su scritto il nome “Francesco”. I discorsi sulla presunta setta, dunque, erano relativi solo a quel periodo, quando l’argomento era anche sui quotidiani.

Dalle testimonianze è emerso infine che le relazioni venivano scritte sulla base di un lavoro d’equipe. Le segnalazioni dei casi non in carico al servizio sociale e quindi non conosciuti - che arrivavano da pediatri o insegnanti - venivano inviate con le informazioni ricevute senza alcuna forzatura, hanno chiarito i testi. In apertura d’udienza è stato concluso l’esame dell’assistente sociale Marta Biacchi, che ha chiarito come la cartella presso la sede centrale del servizio sociale contenesse solo atti ufficiali, come relazioni, decreti e atti dell’autorità giudiziaria, mentre quella presso la sede territoriale dislocata nei vari Comuni del territorio conteneva anche gli appunti di lavoro.

Il chiarimento è arrivato a seguito della contestazione mossa nella scorsa udienza dalla pm sulla difformità dei fascicoli prodotti dalle difese rispetto a quelle depositate presso il Tribunale dei Minori, soprattutto per quanto riguarda gli appunti manoscritti. Contestazione rispetto alla quale Oliviero Mazza, difensore di Anghinolfi assieme a Rossella Ognibene, ha chiesto di disporre d'ufficio l'acquisizione integrale del fascicolo dei servizi. Una sorta di nemesi, dal momento che gli avvocati chiedono sin dal 2020 il deposito dei faldoni nel loro formato integrale, richiesta finora sempre negata.