«Io lo so che zio ha fatto una cosa da pedofilo, vista la mia età». A pronunciare queste parole sarebbe stata la giovane M., una degli otto minori coinvolti nel caso “Angeli e Demoni”, l’inchiesta sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Parole che ieri sono state confermate da un’educatrice della comunità che aveva accolto M., sentita come teste del pubblico ministero Valentina Salvi, che accusa di falso ideologico le relazioni degli assistenti sociali che di quegli abusi sulla ragazzina di 12 anni avevano raccolto informazioni, come presupposto di una condotta non protettiva dei genitori e quindi della necessità di allontanare la minore dall’abitazione familiare. In comunità, ha spiegato la teste rispondendo alle domande dell’avvocato Luca Bauccio - difensore insieme a Francesca Guazzi della psicoterapeuta Nadia Bolognini -, la ragazza aveva iniziato a compiere gesti di autolesionismo, con tagli inizialmente leggeri, poi più profondi, fino a formare l’inequivocabile scritta “fuck” sull’avambraccio. Segni, aveva spiegato la ragazzina - come si legge anche in una relazione della comunità protetta - che servivano per gestire il dolore. «Mi manca molto lo zio - queste le frasi riferite dalla giovane alle educatrici e riportate in quel documento -, non so che fine ha fatto, ho paura che si è ucciso, non so quando lo potrò sentire, diranno che sono scappata con lui, nessuno sa che sono in comunità (...) lo so che per la mia età ha fatto una cosa “da pedofilo”, ma per me è normale ed era una cosa normale. Quando sto male ho provato a scrivere ma non riesco e se mi taglio mi sembra che dopo sto meglio». Ogni due settimane, ha spiegato l’educatrice, M. incontrava i genitori e i fratelli e oltre agli incontri protetti poteva telefonare alla famiglia, in presenza di un educatore, come prescritto dal Tribunale per i minorenni. Durante gli incontri, che dunque si sono svolti regolarmente, la famiglia portava cibo e vestiti indiani, che la ragazza dimostrava di apprezzare. E anche se inizialmente manifestava ansia di fronte all’eventualità di tornare a casa, alla fine la situazione era migliorata, tant’è che la giovane è rientrata in famiglia il 7 giugno 2019, ovvero venti giorni prima del blitz “Angeli e Demoni”. Nel periodo in comunità, la ragazza non aveva potuto partecipare ad alcune feste familiari, proprio a causa della necessaria presenza di un educatore a questi eventi, situazione che avrebbe potuto suscitare non poche incomprensioni con la famiglia, dunque esponendo la giovane a potenziali problemi, in contrasto con quanto prescritto dal Tribunale. Dopo il suo rientro a casa, la giovane era rimasta in contatto con alcuni degli educatori ed altri ragazzi presenti in comunità, con i quali, dunque, aveva stretto legami positivi. L’educatrice tha inoltre spiegato che la ragione dell'intervento di Bolognini sul tema del carattere illecito del rapporto tra M. e lo zio era giustificato dalla necessità di far comprendere alla giovane la pericolosità di quella relazione. La teste ha ricordato intere conversazioni nelle quali Bolognini ha fatto presente come non si poteva accettare che una ragazza di soli 12 anni avesse rapporti sessuali con un adulto di 26. E l’obiettivo della psicoterapia, stando alla testimonianza, era proprio questo: «Dare consapevolezza» alla giovane rispetto al disvalore di quel rapporto. La teste, a specifica domanda di Bauccio, ha precisato che Bolognini le era sembrata «una professionista di grande valore» e che lo scopo della sua psicoterapia era di «andare in profondità». Tant’è che dopo l’intervento della psicoterapeuta gli atti di autolesionismo si sono progressivamente ridotti.

In aula, ieri, è iniziato anche l’esame del padre della giovane, che si concluderà nella prossima udienza. L’uomo, nel 2015, è stato condannato per lesioni ai danni della moglie, picchiata con un bastone - così come la nonna in India, stando ai racconti della ragazza in comunità -, sentenza mai impugnata e, dunque, passata in giudicato. Un episodio rispetto al quale l’uomo aveva ammesso, davanti al Tribunale per i minorenni, le proprie colpe, avviando, poi, un percorso di recupero. Sebbene, secondo quanto riferito dalla minore in comunità, i genitori non sapessero «della reale relazione che intratteneva con lo zio», secondo un’intercettazione ambientale - letta in aula da Rossella Ognibene, difensore, insieme a Oliviero Mazza, della responsabile dei servizi sociali Federica Anghinolfi -, intercettazione che riporta una conversazione tra Matteo Mossini, psicologo dell’Ausl Montecchio, e Nadia Bolognini, i due genitori erano a conoscenza dei rapporti sessuali tra i due, cosa che avrebbero ammesso con lo psicologo, stando alle sue stesse parole. Circostanza che il padre, in aula, ha smentito.

Sentita anche la dottoressa Serena Pietralunga, medico in servizio al pronto soccorso il giorno in cui la minore è stata portata dagli assistenti sociali in ospedale per accertamenti sanitari. Le notizie comunicate ai Servizi sociali, che davano atto della esistenza di rapporti sessuali con lo zio di 26 anni arrivavano dalle confidenze che la ragazzina aveva fatto alla amica, sono state smentite dalla ragazzina durante la visita ospedaliera. La minorenne ai medici ha riferito un fatto diverso, ovvero di aver avuto sette mesi prima, quindi quando aveva ancora 12 anni, un solo rapporto sessuale, non protetto, con un ragazzo poco più grande di lei, quasi coetaneo. Pietralunga ha confermato che il servizio sanitario, per protocollo ospedaliero in uso da anni, procede alle visite necessarie nei casi di sospetti maltrattamenti e abusi di minori quando il Servizio sociale si presenta in ospedale dimostrando di aver adottato il provvedimento di messa in protezione ex articolo 403 del codice civile, sufficiente perché il medico proceda anche a visite più delicate, come quella ginecologica. La dottoressa, anche su domanda dell’avvocata Cinzia Bernini - difensore di insieme ad Elisabetta Strumia dell’assistente sociale Annalisa Scalabrini - ha confermato che il provvedimento era stato da lei visto nella cartella sanitaria dell’ospedale. A seguito della visita ginecologica, eseguita, poi, da un altro medico, il sistema ha generato in automatico un modello di comunicazione alla autorità giudiziaria e Pietralunga, pur avendo ammesso di aver firmato quella comunicazione, ha dichiarato di non aver fatto alcuna invio alle autorità giudiziaria. La ragazza, a suo dire, non andava ricoverata, cosa per la quale il medico avrebbe avuto una discussione coi servizi sociali, ma le decisioni, ha poi ammesso, «venivano prese in condivisione con il medico legale» e alla fine il ricovero della ragazza venne disposto per ragioni di protezione, come peraltro previsto e consentito dallo stesso protocollo ospedaliero per gli stessi abusi.