L’avvocato di uno degli imputati del processo Angeli e Demoni critica l’assenza della teste e la pm Valentina Salvi chiede la trasmissione degli atti. È ancora bagarre al processo sui presunti affidi illeciti, con gli animi sempre più tesi tra accusa e difesa. Talmente tesi che il pubblico ministero Valentina Salvi ha messo nel mirino l’avvocato Luca Bauccio, per un presunto reato eventualmente procedibile solo a querela di parte. Tutto ruota attorno alla testimonianza della dottoressa Rita Rossi, la psicologa che aveva certificato un disturbo borderline nella paziente di Claudio Foti - lo psicoterapeuta assolto in via definitiva in abbreviato -, che ieri avrebbe dovuto essere presente in aula in qualità di teste dell’accusa. Ma nel corso dell’udienza la pm Salvi ha annunciato di aver ricevuto personalmente una comunicazione di legittimo impedimento, con un certificato medico per malattia dal 9 all’11 giugno. Bauccio, difensore della dottoressa Nadia Bolognini, una degli psicoterapeuti a processo, ha dunque chiesto di visionare il certificato, facendo notare che non era presente alcuna diagnosi della malattia e nemmeno una attestazione del medico che certificasse che quella malattia impediva alla teste di essere presente. Bauccio ha quindi esclamato che si trattava di «una diagnosi senza diagnosi», parole che hanno provocato la reazione della pm, che così come fatto in passato - quando aveva chiesto la trasmissione degli atti anche per altri avvocati, come Jenny Loforese e Nicola Canestrini, difensore dell’assistente sociale Francesco Monopoli - ha annunciato di voler procedere nei confronti di Bauccio. Ciò nonostante quelle affermazioni non configurino un reato procedibile d’ufficio, come ha fatto notare il difensore in udienza, ma solo, eventualmente, su querela di parte. «A che titolo, quindi, il pm ha chiesto la trasmissione degli atti?», ha commentato Bauccio, la cui protesta riguardava il fatto che il certificato, così come presentato, impediva, a suo dire, al Tribunale di valutare l’effettivo carattere di impedimento: «Non basta che un medico ci dica che è ammalata - ha sottolineato il legale -, occorre che il Tribunale sia in grado di valutare se si tratta di una malattia che effettivamente impedisce di rendere la testimonianza. Quindi, come si fa sempre per giurisprudenza costante, bisogna non soltanto indicare la malattia, ma dire anche che quella malattia non permette di partecipare all’udienza: lo dice la Cassazione, chiamata a intervenire su queste questioni». Insomma, non ci sarebbe una dimostrazione che «questa malattia sia una malattia», ha evidenziato Bauccio. Secondo cui le sue affermazioni sarebbero giustificate dall’articolo 598 del codice penale, in base al quale «non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo».

La risposta della pm è stata immediata. E immediata è stata anche la controreazione, con la protesta dei legali in aula, che hanno parlato di «grave minaccia nei confronti di tutti gli avvocati presenti», in quanto la pm avrebbe «esercitato il suo potere per zittire e punire un avvocato». Bauccio ha dunque chiesto a sua volta al Tribunale di trasmettere gli atti per violenza privata e minaccia da parte della pm nei suoi confronti. «Non è possibile che io non possa esprimere la mia opinione o la mia critica nei confronti di una consulente il cui operato, peraltro, è stato fortemente stigmatizzato non da me, ma dalla Corte d’Appello di Bologna. Mi sono attenuto a un dato fattuale che ho il diritto di esternare», ha sottolineato.

Tutto è accaduto al termine del controesame della consulente dell’accusa, la psicologa Melania Scali, controesame che aveva peraltro messo in luce ulteriori contraddizioni rispetto a quelle già emerse nel corso delle udienze precedenti. Dal canto suo, la psicologa ha ammesso di non conoscere il contenuto delle sedute sulle quali era stata interrogata mercoledì scorso dalla pm, ma solo alcune frasi estrapolate dalle stesse, che ha interpretato come induttive o suggestive e potenzialmente pregiudizievoli. Il tutto, ha evidenziato Bauccio, ignorando il contesto, «non soltanto quello narrativo della psicoterapia, ma fattuale». Scali, infatti, non sarebbe stata a conoscenza dei fatti che riguardavano i minori, come emerso dalle sue risposte ad alcune domande specifiche sui contenuti delle sedute, e ha ammesso di non aver utilizzato «nessun metodo» di analisi. La consulente non era dunque a conoscenza del fatto che fosse stato N. - uno dei bambini coinvolti nel caso - ad affermare spontaneamente che il padre adottivo gli faceva del male, bestemmiando contro di lui e umiliandolo, nonché usando comportamenti «sessualizzati». Nella sua relazione, però, Scali ha attribuito a Bolognini quelle affermazioni, così come quelle relative allo «scatolone del sesso», un luogo simbolico - scelto in questo caso dalla minore K. - dove il paziente ripone le cose che più gli danno fastidio e lo fanno soffrire. Fu la giovane paziente a scegliere quello «scatolone», che non le fu dunque imposto dalla psicoterapeuta. In quel luogo simbolico, K. inseriva gli episodi vissuti da bambina e che viveva con dolore e dei quali era riuscita a liberarsi una volta estratti ad uno ad uno dallo “scatolone”. «La psicoterapia aveva raggiunto il suo effetto - ha commentato Bauccio -, che è quello di far star bene il paziente. Ma queste vicende non erano note alla consulente». Ma non solo: Scali ha ammesso di non aver preparato il suo esame, leggendo, settimane fa, soltanto i brogliacci e non le trascrizioni ufficiali delle sedute, tanto da non ricordare molti episodi e molti particolari. Una circostanza, ha evidenziato Bauccio, che contravviene «a una regola precisa del codice deontologico, perché il perito e il consulente forense devono essere preparati e devono affrontare il quesito con la massima diligenza».