Molti non so, numerosi non ricordo e, soprattutto, palesi contraddizioni. Al punto che Sarah Iusto, presidente del collegio che giudicherà gli imputati del caso Angeli e Demoni, si è riservata di decidere a fine istruttoria se trasmettere gli atti per falsa testimonianza. Protagonista di un’udienza travagliata sui presunti affidi illeciti è stata la madre affidataria del piccolo N., il bambino che alla età di 4 anni aveva confidato alle insegnanti dell’asilo che «il fratello di 10 anni gli monta sopra e mima atti sessuali», come poi relazionato da una delle maestre nella cartella clinica. Insegnanti che, in una relazione al Servizio sociale, avevano manifestato preoccupazione per «i frequenti comportamenti masturbatori verso se stesso e verso gli altri e la grossa regressione rispetto ai controllo degli sfinteri».

L’affidataria, che sentita dai carabinieri nel novembre 2018 aveva negato comportamenti sessualizzati da parte del bambino, aveva poi fornito una versione diversa alla consulente della pm, poco meno di un anno dopo, in autunno dell’anno 2019.

Parlando del comportamento di N. subito dopo l’arrivo in casa, la donna aveva sottolineato, infatti, che «fin da subito aveva cercava molto il contatto fisico e mirava sempre la bocca» per darle dei baci, aggiungendo che a volte le guardava il seno. «Mi guardava in un modo non come un bimbo guarda un adulto», «quasi malizioso», aveva aggiunto il marito in quel colloquio. Inoltre, la donna aveva evidenziato come ci fosse stato «un duro lavoro» per riuscire a far sì che il bambino «non si facesse più la cacca e la pipì addosso».

Ma non solo: dalle chat depositate dalla difesa di Federica Anghinolfi (Oliviero Mazza e Rossella Ognibene), responsabile dei servizi sociali, «è saltato fuori che quando» il bambino «faceva il cosiddetto monello e anche in altri frangenti, il papà si metteva la maschera e poi lo picchiava». La teste, in aula, ha dichiarato non solo di non ricordare comportamenti sessualizzati, ma anche di non ricordare di aver incontrato la consulente del pubblico ministero, una circostanza che ha sbalordito anche la presidente Iusto. La teste ha però dovuto confermare le proprie affermazioni di fronte alle contestazioni delle difese, che hanno depositato non solo l’audio che testimonia l’incontro tra la coppia di affidatari e la consulente, ma anche le chat tra la donna e l’assistente sociale Francesco Monopoli ( difeso da Nicola Canestrini e Giuseppe Sambataro) e quelle con la psicoterapeuta Nadia Bolognini (difesa da Luca Bauccio e Francesca Guazzi). In quelle stesse chat la donna aveva anche comunicato che il bambino aveva mimato atti sessuali su di lei, circostanza che l’aveva sorpresa e in merito alla quale N. si era giustificato sostenendo che fosse un gioco che aveva visto fare a casa.

Così come un gioco era toccarsi sotto le coperte, cosa che il bambino diceva di fare con il padre e il fratellastro. Ma anche la madre, stando sempre alle dichiarazioni del bambino - poi trasferite dall’affidataria agli imputati -, si sarebbe toccata più volte davanti al piccolo. Di fronte alle molteplici contraddizioni della donna, le difese hanno chiesto alla Corte di sospendere l’esame per valutare se questo teste - come altri cinque in precedenza - potesse risultare indagabile. La Corte, dopo una camera di consiglio, ha deciso di proseguire con l’esame, lasciando alla fine del processo la valutazione su una possibile falsa testimonianza, riservandosi dunque di trasmettere gli atti in procura.

Di fronte alle contestazioni delle difese, la teste ha ammesso che il bambino non voleva tornare in famiglia, affermando anche di non volere vedere la madre, come testimonia una lettera scritta da N. e consegnata poi dall’affidataria a Monopoli. In quella lettera il bambino si diceva arrabbiato, sostenendo di non voler più vedere la madre naturale. «Non voglio che mi porti a casa ma voglio restare dove sono - scriveva il piccolo N. -. Perché io ho paura che te mi fai ancora quelle cose brutte».

La teste ha anche parlato delle sedute con Bolognini, quelle in cui, secondo l’accusa, la psicoterapeuta si sarebbe travestita da lupo spaventando il bambino. Si sarebbe trattato, in realtà, di un gioco di ruolo, messo in scena con un pupazzo a forma di lupo e comprato all’Ikea. La teste, che durante le sedute aspettava il bambino in sala d’attesa, ha dichiarato di averlo sentito gridare.

Da qui la scelta di entrare in stanza: le urla non erano sintomo di paura, ma semplice trasporto durante il gioco. Nessun mantello da lupo, come contestato dall’accusa nel capo d’imputazione, ma un telo che fungeva da “capannina”, sotto il quale il bambino si rifugiava per sentirsi al sicuro. Secondo quanto raccontato dall’affidataria, in un primo momento il bambino era spaventato dal lupo (che rappresentava simbolicamente ciò che gli aveva fatto del male), ma nel corso delle attività di psicoterapia N. avrebbe imparato ad affrontarlo - ovvero ad affrontare le proprie paure -, non provando più terrore.

Su richiesta delle difese, la donna ha spiegato di aver iniziato, dopo gli arresti, a frequentare la famiglia di N., a seguito del rientro del bambino nella famiglia di origine. «Li ho visti come persone diverse da quelle che mi erano state descritte», ha affermato. Ma a descrivergliele era stato proprio il bambino.