«Non ho mai parlato di una rete di pedofili. E non ho mai parlato di sette in Val d’Enza». A dirlo in aula Nadia Bolognini, psicoterapeuta imputata nel processo sui presunti affidi illeciti “Angeli e Demoni”. La professionista ha risposto alle domande della pm Valentina Salvi sul tema degli abusi di gruppo, molto valorizzato nella rappresentazione mediatica della vicenda, rispetto al quale Bolognini si sarebbe però limitata a portare «riferimenti teorici» nel corso di un unico momento di supervisione, nel 2015. «Non sono entrata nel merito di situazioni specifiche - ha sottolineato -, perché non era quello l’obiettivo, ma ne ho parlato con operatori che, all’interno del gruppo, hanno portato quella che soggettivamente era la situazione più difficile per loro da affrontare come operatore. Ma non ho mai parlato di una rete di pedofili».

In quel contesto, l’argomento degli abusi di gruppo era stato tirato in ballo rispetto alla vicenda della giovane costretta a prostituirsi dalla madre ( poi condannata), che aveva fatto riferimento ad un gruppo di abusanti, e rispetto ad un’altra minore, casi che non sono però presenti nei capi d’imputazione. Vicende difficili da affrontare per gli operatori, che dunque si erano confrontati con Bolognini nel momento di supervisione. «C’erano due minori che facevano riferimento a luoghi e uomini coi quali avevano rapporti sessuali. M. faceva riferimento ad un numero consistente di uomini con cui intratteneva rapporti a pagamento. E faceva riferimento anche a modalità magiche e occulte come approccio al vivere comune», ha spiegato. Nessun collegamento è stato mai fatto con la vicenda dei Diavoli della Bassa, perché «non mi esprimo su cose che non conosco».

La pm ha richiamato la testimonianza del medico legale Maria Stella D’Andrea, che a dicembre 2023, in aula, aveva riferito di un dialogo che avrebbe avuto con Bolognini: stando a quanto riferito, la psicoterapeuta disse che «vedeva una similitudine totale tra i casi che lei aveva seguito e conosceva nella provincia di Modena con la famosa setta satanica dove c’era dentro un prete eccetera con i casi che lei stava affrontando nella Val d’Enza e disse anche che era venuto il momento di fare degli studi più approfonditi ed io le dissi: “Non ci penso nemmeno”». Bolognini, però, non aveva avuto alcun ruolo in quella vicenda, contrariamente a quanto diffuso dai media.

Salvi ha citato anche la testimonianza dell’assistente sociale Valentina Leone, secondo cui Bolognini avrebbe invitato gli operatori «a non menzionare queste allusioni, queste ipotesi, questi aspetti legati all’ipotesi dell’esistenza di una setta con nessuno, né della cerchia privata, né tanto meno delle Forze dell’Ordine, perché riteneva... Forze dell’Ordine e Autorità giudiziaria, perché riteneva che questi due soggetti non fossero pronti ad ascoltare questi fatti, che non fossero pronti a ritenerli delle verità». Bolognini ha spiegato che una regola base degli incontri di gruppo, durante i quali ognuno portava le situazioni che avevano creato particolari difficoltà, «è non condividere le informazioni con terzi. Molti portano la loro storia, la loro soggettività. In quel momento ho detto, in modo esplicito, di non comunicare a terzi ciò che emergeva, a tutela di quel gruppo, per evitare che potesse essere oggetto di “pettegolezzi” nei corridoi».

E per quanto riguarda il riferimento alla necessità di tacere con l’autorità giudiziaria e la polizia, Bolognini ha spiegato «che sono gli operatori» che seguono il caso a fare la segnalazione e «non è competenza di chi non conosce la situazione specifica farlo. Leone non conosceva nessuna di queste situazioni, perché non era l’assistente sociale di quei minori. Le relazioni alla magistratura vengono fatte dagli operatori che conoscono la situazione, quelli che non la conoscono non devono entrare nel merito».

Durante l’udienza c’è stato uno scontro tra la pm e il difensore di Bolognini, Luca Bauccio, che aveva contestato un commento della magistrata alla risposta dell’imputata. «Lei ha detto a Francia (Elena, consulente dell’accusa, ndr) se è normale ha ribattuto Salvi - e di questo risponderà». Un’affermazione vissuta come un’intimidazione da parte di Bauccio, secondo cui la pm avrebbe anche rivelato un segreto d’ufficio o anticipato una querela. «Trovo anomalo e irrituale che un pm, su un’osservazione fatta su una sua domanda, possa rivolgere ad un avvocato l’anticipazione o la rivelazione di un’azione legale a querela di parte. Parte che non è la pm - ha sottolineato -. Io la interpreto come una intimidazione e un gratuito messaggio rivolto a un difensore di temere una reazione. Voglio lasciare agli atti il mio turbamento, perché non mi sento libero di fare il difensore».

Salvi ha replicato additando Bauccio: «Non so di iniziative giudiziarie di Francia. Il mio modo di procedere è stato giudicato indegno ha sottolineato -. Se un avvocato si rivolge ad un testimone qualificato in modi simili non può poi definire il mio modo di agire e lavorare e il bambino interpretano il minore che viola le regole e l’adulto che glielo impedisce. Il gioco prevedeva la presenza di un telo sulle spalle, «perché nel gioco psicodrammatico è importante che il bambino sappia che si sta giocando - ha spiegato Bolognini -. Se i teli si toccano abbiamo perso, se un telo invade lo spazio dell’altro perde». Insomma, un modo per gestire i limiti e per «elaborare e accedere alla desensibilizzazione di una situazione che può essere dolorosa».

Bolognini ha inoltre chiarito che fu il bambino a scegliere il patrigno come adulto e a chiedere di fare quel gioco. Tant’è che nelle intercettazioni si sente Bolognini chiedere a N. di spiegare come funziona il gioco per poterlo fare. «Al termine della terapia era migliorato - ha aggiunto - aveva imparato a giocare, era migliorato nel linguaggio, aveva imparato a stare in seduta, a non fare e farsi del male. Il focus della terapia non verteva sugli abusi sessuali, ma su quello che il bambino portava in seduta. Lo scopo è curare le ferite».

La Corte ha infine depositato la motivazione delle assoluzioni per abuso d’ufficio, reato abolito lo scorso agosto. Le difese di alcuni imputati avevano chiesto una motivazione nel merito. Le giudici hanno però sottolineato che l’istruttoria, al momento dell’abolizione del reato, non era completa, mancando non solo l’audizione degli imputati, ma anche quella di diversi testi, non solo dell’accusa, ma anche tutti quelli a discarico, tant’è che dopo la pronuncia di proscioglimento dell’ 11 ottobre la difesa di Federica Anghinolfi ha dovuto rinunciare a 60 testi solo in relazione a quei capi d’imputazione. Le giudici hanno dunque sottolineato che mancando «la piena cognizione degli atti» è possibile pronunciare una sentenza di assoluzione “solo” perché il fatto «non è previsto dalla legge come reato».