Brutto giorno quello in cui i politici si travestono da pubblici ministeri e lo Stato liberale e federalista riveste i panni napoleonici e mette in soffitta il pensiero di Luigi Einaudi sui prefetti. Se poi in quello stesso giorno le parti si invertono. E troviamo che la sinistra non apprezza più quelle leggi antimafia con cui ha sempre tentato di incastrare gli avversari. E questi stessi, immemori dell’uso politico di norme e inchieste giudiziarie di cui sono stati vittime, dallo scioglimento infinito di grandi e piccoli Comuni governati dal centrodestra, fino alla trentennale persecuzione contro Berlusconi, vanno alla ricerca di improbabili nemesi storiche, travestiti da mozzaorecchi.

Se tutto ciò accade oggi sul palcoscenico di Bari, e persino Forza Italia si fa immemore della propria storia e del proprio leader fondatore, vuol proprio dire che per lo Stato di diritto rimane poca speranza. Del fatto che l’iniziativa del ministro dell’interno Matteo Piantedosi di aprire un’indagine conoscitiva sul Comune di Bari per verificare se vi sia un’infiltrazione mafiosa, abbia una coloritura politica, non vi è dubbio.

Politica è indubbiamente l’esistenza stessa dei prefetti, cui questo compito è nel concreto affidato, dal momento che impongono lo Stato centrale con i suoi burocrati e le sue scartoffie come una cappa soffocante sulla autonomia delle amministrazioni locali, sulla testa dell’elettorato e la libera scelta dei cittadini. E questa norma illiberale nata nel 1991, mentre stava tramontando la prima Repubblica, in una situazione contingente e particolare, quasi come se si trattasse di regolamentare i rave party, ha potere di vita e di morte sui governi locali, sui cittadini e sull’autonomia delle urne. Come e più delle inchieste giudiziarie. Perché ogni volta che lancia l’allarme, mette un timbro di discredito su un sindaco e la sua amministrazione, ma anche su un intero consiglio comunale, in modo immediato. Ed è sufficiente la parola “ispettori” o “commissione” per indurre prima di tutto la sensazione dell’odore di bruciato. E il passo successivo, si sa, è che dove c’è fumo c’è arrosto.

Se a questo, che è l’aspetto mediatico, aggiungiamo la totale discrezionalità consentita a burocrati e scartoffie per disporre lo scioglimento di un Comune con l’infamia del timbro di mafiosità, non possiamo che essere d’accordo con chi, come il sindaco di Bari Antonio Decaro, si sente vittima di un colpo sparato in mezzo al petto. Prima di tutto perché gli orologi e le orologerie devono valere per tutti. E nessuno può ignorare il fatto che non solo in Europa, ma anche in alcuni Comuni italiani tra cui proprio Bari in giugno si svolgeranno le elezioni. E anche che proprio la Puglia e lo stesso capoluogo di regione saranno teatro del G7, importante momento politico in cui ha grande rilevanza la sicurezza. E sarebbe una bella beffa dare ospitalità a esponenti di governo di tutto il mondo in zone sospette di mafiosità. La protesta del sindaco Decaro sarebbe stata la stessa di un collega di centrodestra. Anzi, la è stata, in situazioni analoghe. E non risulta che nessun collega di sinistra si sia minimamente scomposto a dare la propria solidarietà. Anzi, in larga parte gli esponenti della sinistra hanno svolto il ruolo di istigatori di inchieste giudiziarie o provvedimenti burocratici che rovesciassero le scelte elettorali dei cittadini.

Per questo è stata totalmente inopportuna, addirittura fastidiosa, la presa di posizione indignata della segretaria del Pd, Elly Schlein. Proprio perché dirige un partito in cui esponenti, in gran parte, sono in prima fila, spesso in gara competitiva con i peggiori tagliagole del Movimento cinque stelle, nell’aizzare i burocrati e le scartoffie e le toghe contro l’avversario politico. Da “dagli al fascista” fino al “dagli al mafioso” o “dagli al terrorista”, è purtroppo un coro radicato nella storia della sinistra italiana. Da ben prima del sostegno incondizionato a Mani Pulite, fin dall’insofferenza nei confronti di movimenti estremistici, ma non per questo sempre illegali, perseguiti e a volte perseguitati da magistrati di sinistra con l’incoraggiamento degli uomini del Pci ed eredi successivi. Non c’è bisogno di ricordare il processo “7 aprile” o l’indicazione del professor Toni Negri come capo delle Brigate Rosse e assassino di Aldo Moro. Né, dal 1994 fino a oltre la sua morte, tutta la storia politica di Silvio Berlusconi interpretata come storia criminale e addirittura stragista.

In un intervista ad Affari italiani, il deputato di Forza Italia e vicepresidente della Commissione bicamerale antimafia Mauro D’Attis ricorda due Comuni della provincia di Brindisi, Ostuni e Carovigno, sciolti per mafia ma con sindaci risultati totalmente estranei all’infiltrazione della criminalità organizzata. Non si ricorda, osserva il deputato, nessuna presa di posizione di Antonio Decaro, che è anche il presidente dell’Anci, l’associazione che tiene insieme tutti i Comuni italiani, in sostegno a quei sindaci. Uno dei quali è stato in seguito anche eletto una seconda volta. Sono solo piccoli esempi, se rapportati a tutta quanta la storia politica, giudiziaria e burocratica dell’interno Paese.

Per questo non ha diritto di indignarsi Elly Schlein. E anche il sindaco Decaro, la cui situazione emotiva è del tutto comprensibile, dovrebbe ora fermarsi un attimo e riflettere, nel momento in cui è capitato a lui, proprio come succede quando ti arriva l’imprevista brutta malattia, su quanti prima di lui siano stati ingiustamente colpiti mentre magari non lo meritavano, mentre erano in campagna elettorale, mentre combattevano contro la mafia e contemporaneamente erano sospettati di intelligenza con il nemico. È capitato, sa? Più spesso di quanto non possano immaginare quelli che fino a ora sono stati dall’altra parte del tavolo. E gli esponenti di Forza Italia, che oggi si sono assunti il ruolo di giustizieri, non provano proprio nessun imbarazzo? Il piatto di lenticchie elettorali vale davvero la perdita della propria storia e della propria dignità?