Si trovano principalmente nelle grandi aree urbane, più al Nord che al Sud, nei dintorni delle stazioni o dei centri commerciali. Gruppi che non sforano quasi mai i dieci, tutti maschi, prevalentemente italiani, giovani tra i 15 e i 24 anni. Ragazzi che provengono da contesti di marginalità o disagio socio-economico, il cui primo bersaglio sono i proprio coetanei. I media le chiamano “baby gang”. Ma cosa sono davvero? E quanto bisogna preoccuparsi?

L’unico identikit che abbiamo, l’unico che poggi davvero sui dati, descrive un fenomeno abbastanza diffuso, ma non allarmante. E comunque distante dai toni apocalittici con cui viene presentato dai media. I fatti di cronaca di cui si ha notizia, e non ultimo quello consumato la scorsa estate a Caivano – la città campana che ha dato il nome a un decreto del governo e ha riportato la premier sul posto proprio oggi per l’inaugurazione del nuovo centro sportivo - fanno una certa impressione. Ma lontano dai toni enfatici che raccontano di una “devianza giovanile” irredimibile, si trovano i numeri. E questi parlano di una tendenza da tenere sott’occhio, applicando con cautela il marchio di emergenza.

«Sarebbe importante riconoscere che la sicurezza reale e quella percepita non sempre coincidono», spiega Stefano Delfini, Direttore del Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno. Il quale mette in fila i principali dati emersi dal report “Criminalità minorile e gang giovanili” presentato un paio di settimane fa a Roma. Cifre aggiornate al 2023, in base alle segnalazioni di minori tra i 14 e i 17 anni denunciati o arrestati presenti nella banca dati della polizia, e messe a confronto con i risultati del Rapporto Italia 2024 elaborato dall’Istituto Eurispes. Che sondando il fenomeno attraverso l’esperienza diretta dei cittadini restituisce invece un quadro allarmante: oltre un terzo del campione dei rispondenti, il 36% (quasi 4 cittadini su 10), denuncia la presenza di gang giovanili nella zona in cui vive. E questa indicazione, come spiega Susanna Fara, responsabile comunicazioni di Eurispes, è percentualmente più alta presso i giovanissimi.

Un’analisi che trova riscontro anche nei dati della polizia: “Nella maggioranza dei casi, le gang giovanili attive nei territori nel periodo in esame (biennio 2022-2023, ndr) hanno compiuto atti di bullismo, risse, percosse e lesioni, atti vandalici e disturbo della quiete pubblica. L’attività di gran lunga predominante, ad ogni modo, è rappresentata dalle vessazioni nei confronti di coetanei”. Secondo lo stesso report sulla criminalità minorile, dal 2022 al 2023, 73 province italiane hanno registrato attività violente o devianti da parte di gang giovanili. Tra il 2010 e il 2022 si rilevava un aumento del 15,34% delle segnalazioni di minori, ma il valore del 2023 è inferiore a quello del 2022 del meno 4,15%. Con un incremento dell’8,25 rispetto alla violenza sessuale nell’ultimo biennio.

Lo studio tende necessariamente a “comprimere” un fenomeno in realtà estremamente variegato. E si pone parzialmente in contrasto con quanto rilevato precedentemente con lo studio del 2022 “Le gang giovanili in Italia”, nato dalla collaborazione fra il centro di ricerca interuniversitario Transcrime dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, lo stesso servizio di analisi della polizia e il Dipartimento per la Giustizia minorile del ministero della Giustizia, attraverso i dati forniti dagli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (USSM). Si tratta del primo monitoraggio sul fenomeno, il primo tentativo di mapparlo e definirlo in base alle informazioni sul triennio 2019-2021. Secondo quei dati, metà degli USSM e il 46% delle questure e dei comandi provinciali dei carabinieri che hanno registrato la presenza di gang giovanili hanno anche indicato un aumento del fenomeno negli ultimi cinque anni. Se ne trova traccia anche nello studio elaborato con Openpolis dall’Osservatorio #conibambini nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile, che lanciando la campagna “Non solo emergenza” racconta di quei giovani colpiti da (eco) ansia, depressione e bullismo.

Ebbene, l’incremento segnalato negli ultimi cinque anni non trova conferma nel rapporto aggiornato dal Servizio Analisi Criminale, che ha condotto uno studio finalizzato proprio a rinnovare quella mappatura. «In rarissimi casi – si legge nel report - si sono registrati gruppi dotati di una gerarchia definita; non sono state censite gang che risultino essersi ispirate ad organizzazioni criminali italiane o estere». E ancora: «Nel biennio analizzato, non vi è la percezione da parte delle Questure e dei Comandi Provinciali dell’Arma dei Carabinieri che la presenza di gang giovanili sia aumentata negli ultimi cinque anni e solamente in due province si sono riscontrati legami tra gang giovanili ed organizzazioni criminali». Le cause? «La disoccupazione giovanile e la carenza di modelli positivi potrebbero contribuire alla formazione di tali gruppi che, spesso, catalizzano l’attenzione dei media e delle autorità locali a causa delle loro attività criminali e del loro impatto sulla comunità». Resta dunque una domanda: esiste oppure no, un “caso Italia”? Non secondo Delfini, per il quale quello delle baby gang è un «fenomeno che non mostra peculiarità rispetto ad altri paesi».