Il decreto Sicurezza, che il governo ha sostanzialmente sottratto all’esame del Parlamento, ponendo il voto di fiducia, contiene disposizioni assai eterogenee, tutte accomunate da una neanche troppo latente violenza di fondo.

Come sempre, infatti, ai problemi sociali – veri o presunti – il governo risponde con nuove figure di reato, inasprimento delle pene, giri di vite sull’ordinamento penitenziario e, non da ultimo, maggiore estensione della “repressione preventiva”. Il refrain di questa ennesima stretta securitaria è, non a caso, la “sicurezza” come bene da conseguire, al quale fa da contraltare l’“insicurezza” come condizione immanente e incombente. È l’inganno del “governo attraverso la sicurezza” denunciato da Agamben, così simile allo statuto dei poteri assoluti e non illuminati di stampo prettamente medioevale: il potere mistico e salvifico del Re, la cui dimensione divina lo rende incontestabile e presuntivamente volto al bene del popolo da lui amministrato come un gregge. Il buon pastore che ci difende dal lupo che crediamo essere in agguato.

La Fortezza Bastiani, che ci protegge dai tartari che non arrivano mai… e intanto ci tiene prigionieri. Così, il governo punirà la “non violenza” dei detenuti. Non basta che siano in carcere (“e sono tanti, e sono troppi” gli innocenti tra loro), privati della libertà, della dignità, degli affetti: se protesteranno per le condizioni di detenzione indecorose di alcuni istituti penitenziari fatiscenti e sovraffollati; se oseranno alzare la testa dai miasmi di alcune celle buie e promiscue, allora saranno severamente puniti in nome della “sicurezza”. E siccome una frequente forma di manifestazione di disagio carcerario è il suicidio, è facile prevedere che inibire altre forme di protesta porterà ad altre morti, ad altre tragedie. Si potrebbe obiettare che punire il dissenso non violento sa di dittatura, che viene mortificato il principio di offensività, alla base della proporzionalità che deve sorreggere la pena; che viene ignorato il principio di materialità; che il diritto penale liberale diviene un vuoto simulacro; che la Costituzione viene stracciata.

Ma basta dire che una riforma del genere offende il buon senso, mortifica quel minimo di intelligenza e di coscienza che ancora dovrebbe albergare nelle menti e nei cuori di chi ci governa. Punire la “resistenza passiva” significa non tanto ignorare le basi del diritto penale, ma disconoscere la storia del colonialismo occidentale e la lezione, ad esempio, di Gandhi. Nel decreto Sicurezza, ovviamente, non poteva mancare un sguardo alla prevenzione, sempre animato dalla medesima logica. È prevista, ad esempio, l’estensione del Daspo urbano, misura disposta dal Questore e come tale impugnabile solo davanti al Tar, a tutti coloro che siano anche solo denunciati per reati commessi “nelle aree interne e nelle pertinenze di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano”. A costoro sarà inibito l’ingresso in determinate zone urbane e l’avvicinamento ai locali pubblici. Insomma, il ritorno al bando previsto, agli albori della prevenzione, per gli oziosi e i vagabondi, con buona pace delle sentenze della Corte costituzionale che, nel secolo scorso, avevano cancellato questa misura vergognosa.

Sul versante delle misure di prevenzione patrimoniali, poi, si prevede che la confisca definitiva di un’azienda determini, automaticamente, la risoluzione dei contratti di lavoro del coniuge, del convivente, dei parenti e degli affini del destinatario del provvedimento, senza specificazione del grado. Finiranno per strada, a ingrossare le file degli emarginati, dei disadattati, persone ( a migliaia ogni anno, secondo stime del tutto prudenziali), la cui unica “responsabilità” è essere cugino o cognato di un soggetto colpito da confisca.

Secondo una logica della “terra bruciata” tipica di uno stato d’assedio, nel quale il bene superiore – di respingere il tartaro perennemente (immaginato) alle porte - val bene qualche danno collaterale, qualche vittima innocente. Il “rischio calcolato” della malagiustizia, sdoganato in sede penale dal ghigno sprezzante di qualche giurista da salotto ( televisivo e senza contraddittorio), diviene il fine dichiarato e non più eterogeneo dell’azione di prevenzione. Bisogna espellere dal circuito economico non solo il soggetto pericoloso, ma anche tutti coloro che siano in qualche modo legati a lui, a prescindere dal loro profilo personale. Occorre, secondo una visione violenta e cieca, amministrare (in) giustizia, sradicare, “costi quel che costi”. Ma l’analisi dei costi non è stata fatta, o è stata fatta assai male.

Colpire sul piano di un diritto di rilievo costituzionale, come quello al lavoro, soggetti estranei al procedimento di prevenzione, rispetto ai quali non è stato reso – neanche incidentalmente – un giudizio di pericolosità, che non rientrano nell’ambito di applicazione della presunzione di fittizietà della intestazione, che non sono stati chiamati a contraddire nel procedimento applicativo della confisca, che non possono difendersi rispetto alla perdita automatica del proprio posto di lavoro, è un vulnus inimmaginabile a tutti i cardini del nostro ordinamento democratico. Travolge i principi di personalità della responsabilità, di proporzionalità della sanzione, di effettività della difesa, di ragionevolezza nel bilanciamento tra interessi collettivi e diritti individuali. Ma non si tratta solo di un problema giuridico. Nuovamente, la prevenzione mostra la sua tendenza criminogena nella sua attitudine a distruggere anche l’economia legale, così generando nuova marginalità, nuova povertà, nuova attrattiva dei sistemi economici “alternativi” e, in definitiva, nuova insicurezza. Che poi giustificherà ulteriori interventi legislativi, ancora più restrittivi ed obnubilanti. Fino a quando la capacità del sistema di autoalimentarsi dei suoi stessi frutti chiuderà il cerchio della “dittatura della prevenzione”, nella quale sembriamo – a dire il vero – essere già scivolati.