«La madre ha accompagnato la bambina alla guardia medica riferendo che qualcuno tocca la bambina con le dita. La bambina riferisce alla mediatrice culturale “ieri mentre la mamma e fratellino dormivano il papa mi ha tirato giù le mutandine e mi ha toccato là, indicando i genitali, e in cambio mi ha dato una caramella e mi ha fatto promettere di non dire niente alla mamma” (...) giunge alla nostra osservazione accompagnata dal maresciallo dei Carabinieri di Montecchio e dai volontari dell’ambulanza per sospetto abuso sessuale».

Queste parole sono contenute nel referto medico della piccola C., uno dei bambini che secondo la procura di Reggio Emilia sarebbero stati “strappati” ai genitori per alimentare il business degli affidi. Una bambina per la quale il sospetto abuso era stato segnalato dalla madre, ma anche dai medici che l’hanno visitata e ai quali la piccola aveva riferito personalmente del “gioco” fatto con papà. Un gioco del quale C. parlò poi anche agli affidatari, ascoltati lunedì in aula nel processo sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Testi che hanno avuto la bambina e il fratellino in affido per quattro anni e che hanno raccontato i comportamenti sessualizzati della piccola, ma anche le sue paure, al punto da svegliarsi di notte, in trance, urlando «no, basta papà».

La bambina, appena a casa degli affidatari, aveva comportamenti strani e a volte, a sera, infilava le mani tra le gambe dell’affidatario dicendo «ti voglio fare le coccole». A volte, poi, si abbassava le mutandine, chiedendo al fratello di due anni di baciarle il sedere. La stessa bambina aveva poi riferito agli affidatari del “gioco” fatto con papà: a far scattare il ricordo la sirena di un’ambulanza, che hanno spinto C. a raccontare del ricovero in ospedale. «Non riuscivo a camminare», aveva raccontato la piccola - all’epoca dei fatti di soli 5 anni - al padre affidatario, «avevo fatto il gioco con papà e mi ero fatta male, sono andata in ospedale».

In aula gli affidatari hanno mimato i gesti fatti dalla bambina per spiegare il gioco, affiancando indice e medio di una mano e usando l’indice dell’altra mano come ad indicare una misura. Un gesto che la bambina accompagnava all’espressione «il papà metteva un ossetto» ovvero «un orsetto». C. non ha però ripetuto queste parole in incidente probatorio, dove è rimasta in silenzio. La bambina era stata dunque consegnata ai servizi con un referto dell’ospedale che indicava un presunto abuso intrafamiliare, del quale era stata la stessa madre a parlare, salvo poi attribuire la causa dei dolori intimi della figlia all’eccessivo consumo di dolci.

La bambina, stando a quanto riferito dagli affidatari, sarebbe arrivata a casa con scarse capacità linguistiche e incapace di riconoscere i colori e disegnare. Inoltre non avrebbe saputo riferire il nome del padre. «Non ricordo che prima di ricevere i regali ( da parte dei genitori naturali, ndr) i bambini volessero rivederli», ha inoltre spiegato il padre affidatario. I due testi hanno inoltre spiegato che il servizio sociale della Val d’Enza forniva loro molto supporto, seguendoli in molti incontri durante gli anni dell’affido, anche con l’invio di un educatore a domicilio. In aula, lunedì, è comparso anche il medico di base dei due genitori naturali di C. e S., che non era a conoscenza dei problemi di natura psichiatrica della madre, al punto di ignorare il tso fatto alla donna più di un mese dopo l’allontanamento dei figli.

Ma non solo: a parlare è stato anche Marco Scarpati, avvocato inizialmente indagato e la cui posizione è stata poi archiviata. Una vicenda dolorosa, per lui, che si è avvalso del segreto professionale sui singoli casi ma ha poi spiegato in via generale il suo ruolo di consulente per i servizi sociali, con i quali affrontava i singoli casi partendo dalle normative. Nessuna gerarchia da rispettare all’interno del Servizio, ha sottolineato, tutti lavoravano in maniera paritaria e i singoli assistenti sociali non solo avevano diritto di parola, ma anche diritto di contestazione rispetto a quello che veniva detto. «Nessuno mai si sentiva soverchiato da altri, a volte i casi erano commoventi, erano faticosi e il carico di lavoro che aveva ognuno di loro era sovrumano. Era spaventoso pensare quello che facevano - ha sottolineato -, tant'è che io mi complimentai con i dirigenti dell'Unione dicendo, guardate, baciate dove camminano perché loro lavorano come dei matti e non vi chiedono di pagare tutto il lavoro che fanno».

La pm Valentina Salvi ha chiesto a Scarpati se preparasse i bambini al processo. «Io non ho mai visto da solo bambini minorenni. Applicavo la direttiva regionale del 2013 - ha risposto -, in base alla quale occorreva, per i bambini abusati, anche una preparazione endoprocessuale, ovvero fargli capire che cosa fosse un incidente probatorio e che dovevano dire la verità, non inventarsi nulla e di non rispondere se non capivano, di spiegare che non avevano capito. Dicevo loro di evitare di pensare che qualcuno si aspettasse determinate risposte da loro, loro dovevano solo dire la verità, nient'altro che la verità. Questa era la mia preparazione. Ma ero sempre accompagnato da un assistente sociale e da uno psicologo. Non ho mai ascoltato da solo un bambino». La pm ha chiesto chiarimenti sulla Carta di Noto, considerata dagli investigatori di questo processo come una “Bibbia” per quanto riguarda l’ascolto del minore, al punto da contestare agli indagati il metodo “Cismai”, in ogni caso egualmente accreditato presso il ministero della Salute. «Io partecipai ai lavori preparatori della Carta di Noto - ha spiegato Scarpati -, ricordo perfettamente ogni cosa. Ma non è una carta per gli psicologi terapeuti: fu fatta da un gruppo di avvocati e di psicologi giuridici per il processo, cioè per creare regole per l'ascolto del minore durante il processo. Punto. La psicoterapia non c’entra niente. Ma il vero problema in tutto questo processo, e io l'ho denunciato per anni senza essere ascoltato, è il fatto che ci sono due tribunali che chiedono il contrario l’uno dell’altro ai servizi sociali, per cui mentre il Tribunale per i minorenni impone di intervenire se c'è una situazione di pregiudizio per il minore, disponendo anche la cura psicoterapeutica dovuta per legge, il Tribunale ordinario dice no, non toccatelo, non fate niente, non ascoltatelo. Sarebbe necessario che si mettessero d'accordo.

Cosa dovrebbe fare un assistente sociale di fronte a questo? Quando due elefanti litigano a rimetterci è sempre l’erba». Scarpati ha poi chiarito di essere sempre stato favorevole alla registrazione degli incontri: «La registrazione obbligatoria del minore è una mia mania: lo raccomando da 30 anni, anche perché resta nel video il linguaggio corporeo. Non solo degli incontri protetti, ma anche delle psicoterapie. Anghinolfi ( Federica, responsabile del Servizio sociale, ndr) alla fine si era convinta che avevo ragione. Ha tentato di farli, ma il problema era trovare i fondi». L’avvocato ha smentito che da parte dei Servizi ci fosse insistenza per gli allontanamenti: «Ricordo che una volta Anghinolfi mi telefonò dicendomi: “Noi siamo venuti qua per chiedere di non fare il collocamento protetto della bambina, cioè di tenerla a casa. Il problema è che il giudice ha deciso che va messa in protezione. Cosa dobbiamo fare?”. Io dissi che gli ordini delle autorità si eseguono, per cui dovevano fare l’allontanamento». La pm ha anche chiesto se Scarpati avesse mai dato indicazioni in merito agli affidi: «Mai fatti. Io non so niente di affidi. Sono un esperto di adozioni, ma di affidi non mi sono mai occupato».

Rispondendo alle domande delle difese Scarpati ha affermato di avere «una stima professionale altissima» di Imelda Bonaretti, «che è stata la psicologa di mia figlia». Inoltre ha negato di aver mai ricevuto pressioni da qualcuno per modificare atti nel corso della sua attività. Su richiesta dei difensori di Francesco Monopoli - Nicola Canestrini e Giuseppe Sambataro - ha escluso categoricamente tale possibilità. «Ci mancherebbe. Sono noto per essere un burbero, nessuno si permetterebbe mai». Stessa storia per Anghinolfi, difesa da Rossella Ognibene e Oliviero Mazza: «Assolutamente no».