Quello che stupisce, e angoscia, è la mancanza di reazione dagli altri paesi europei. In Spagna, l’altra notte, è stata realizzata una vera e propria retata di rappresentanti del popolo, accusati di reati squisitamente politici. Tutti in cella. Non avveniva dai tempi del franchismo, o di Salazar in Portogallo, o del golpe in Grecia alla fine degli anni sessanta.

Possibile che né uno Stato, né un partito (tranne i verdi) né una pubblica autorità abbiano fatto notare che questa decisione della magistratura spagnola è la più grande violazione della democrazia, sul territorio europeo, degli ultimi quarant’anni?

Noi possiamo discutere finché vogliamo sulla saggezza o sulla demenza delle rivendicazioni indipendentiste catalane. Ed esprimere anche i giudizi più severi di condanna e di riprovazione. E possiamo persino prendere atto (forse) della legittimità formale delle decisioni della procura che ha spiccato i mandati di cattura e messo in prigione lo stato maggiore catalano. Però non possiamo nascondere in nessun modo la gravità assoluta e il carattere fortissimamente illiberale della decisione e la ferita che questa decisione porta dentro il recinto dell’Europa.

Il fatto che nessuno abbia voglia di prendere posizione e di segnalare la pericolosità della linea repressiva scelta dal governo e dalla magistratura spagnola ci fa capire che le classi dirigenti europee si stanno abituando a una situazione di eccezione che ha poco a che vedere con le norme e le abitudini della democrazia politica del novecento.

In Spagna, una Procura – forse d’intesa più o meno esplicita col governo – sceglie di eliminare il gruppo dirigente di un movimento popolare estesissimo di dissenso, imprigionandolo. In Italia una cosa del genere non è ancora successa, anche se negli ultimi anni molto spesso sono stati arrestati esponenti politici, alcuni sono ancora in carcere e moltissimi altri sono stati messi fuorigioco con il sistema degli avvisi di garanzia e delle fughe di notizie realizzate con la complicità della stampa. Qui da noi però si è sempre lavorato su accuse “laterali”, cioè mai direttamente e apertamente politiche, anche se squisitamente politica era l’intenzione (basta pensare alla recente comica accusa di strage rivolta a Berlusconi in piena campagna elettorale). Non si è mai arrivati a generiche accuse di sedizione ( se non nel periodo della lotta armata). In Spagna è stato compiuto il passo successivo, dichiarando apertamente la legittimità della repressione e del carcere come strumenti per sconfiggere la linea politica dell’avversario.

Questo salto di qualità fa suonare il primo campanello di allarme. Il secondo campanello ( che è una campana che suona disperata, a distesa, a stormo, forse a morto) scatta proprio perché nessuno vuole sentire il primo allarme. E ci avverte che non solo è in atto una trasformazione di tipo autoritario della nostra democrazia, e di una sostituzione del potere politico col potere giudiziario (scusate la semplificazione con la quale ho fuso il potere esecutivo e quello legislativo in un unico potere politico), ma ci informa che le classi dirigenti, e lo stesso potere politico, sono forse assuefatte, forse addirittura convinte che questa “rivoluzione” e questo rimodellamento della democrazia è necessario.

Ma si tratta davvero di un rimodellamento, o addirittura di un ammodernamento, oppure siamo di fronte a un intervento che modifica lo stesso dna della democrazia?

Propendo per questa seconda ipotesi. La democrazia politica, con tutti i suoi limiti e difetti, è la più grande conquista di civiltà che l’umanità abbia ottenuto e sviluppato nell’ultimo secolo. E ha saputo difenderla dalle tentazioni totalitarie che sono nate al suo interno, come il fascismo, il nazismo, il comunismo. Ma la forza della democrazia politica è costruita su tre capisaldi: lo stato di diritto, la divisione dei poteri, la sacralità del voto popolare. Se il potere giudiziario ( che è un potere necessario alla democrazia ma esterno alla fonte democratica) non accetta la parità con il potere politico ( e pretende di sopravanzarlo, e poi sottometterlo, infine punirlo), la divisione dei poteri sparisce e con essa sparisce lo stato di diritto. E naturalmente, con la delegittimazione dei rappresentati del popolo, o addirittura con il loro arresto, sparisce anche la sacralità del voto popolare. Cosa resta?

Niente. Il rischio di questa trasformazione della democrazia alla quale stiamo assistendo, quasi silenziosi, è la fine della democrazia. La sua cancellazione. Quello che non successe nei primi anni del secolo scorso, con la vittoria dei totalitarismi in molti paesi europei, rischia di succedere adesso.

Possibile che le nostre classi dirigenti fingano di non vedere? Possibile che non capiscano che il loro stesso destino è in discussione? Possibile che la codardia, o la pigrizia, abbiano il sopravvento persino sull’istinto di sopravvivenza?