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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
«Il dovere del pubblico ministero di svolgere attività di indagini a favore dell’indagato non è presidiato da alcuna sanzione processuale, essendo, peraltro, il difensore facultato a svolgere indagini difensive ai sensi degli articoli 391-bis e seguenti del codice di procedura penale; ne consegue che, sebbene ciò non autorizzi l’organo requirente a disattendere la disposizione normativa, qualsiasi doglianza in tal senso non può essere proposta con il ricorso per Cassazione». Sono parole che tagliano la testa al toro quelle della Suprema Corte, messe nero su bianco nella sentenza della sezione VI numero 30196 del 3 settembre 2025. Una pronuncia che, al di là del caso concreto, interviene su un nodo antico e mai risolto del nostro sistema processuale: il rapporto tra il ruolo del pubblico ministero e le garanzie dell’indagato.
Con questa decisione la Cassazione ribadisce un concetto chiave: se il pubblico ministero decide di non indagare su fatti che potrebbero scagionare l’indagato, non succede nulla. Non ci sono sanzioni processuali, non si configura alcuna nullità, non si può invocare un vizio deducibile in Cassazione. La scelta resta interamente nelle mani del pm, che conserva la discrezionalità assoluta nel valutare se e quando approfondire elementi a discarico.
«Ciò in quanto la valutazione in concreto circa la necessità o meno di accertare fatti e circostanze a favore dell’indagato – prosegue infatti la sentenza – oltre ad implicare delle valutazioni di merito estranee al perimetro del giudizio di legittimità, spetta unicamente al pubblico ministero, che deve esercitare la facoltà anche come organo di giustizia, ossia come parte sui generis, ma che, in tale veste, non può essere vincolato alle indicazioni della difesa sul punto».
Il messaggio è chiaro: l’articolo 358 c.p.p. non è un vincolo operativo effettivo, ma un richiamo programmatico, privo di reali conseguenze sanzionatorie. Non a caso la giurisprudenza lo definisce norma «meramente precettiva», come ricorda Riccardo Radi sul blog Terzultimafermata. E così, tra la teoria e la pratica, si apre un solco profondo.
Ed è proprio su questo solco che si innesta il dibattito sulla separazione delle carriere. La magistratura, in larga parte, si oppone alla riforma richiamando l’argomento della comune “cultura della giurisdizione”: l’unità delle carriere assicurerebbe un approccio condiviso tra giudici e pubblici ministeri, tale da impedire a quest’ultimo di ridursi a una parte esclusivamente accusatoria. Senza tale comunanza, si dice, il rischio sarebbe duplice: da un lato, la trasformazione del pm in una sorta di “super-poliziotto”; dall’altro, la necessità di un controllo politico più stringente per evitare derive autoritarie.
Eppure, questa sentenza mostra come nella realtà quotidiana tale cultura - se esistente - non sia sufficiente a garantire un equilibrio effettivo. Il pubblico ministero rimane, nei fatti, un organo dell’accusa, libero di orientare le indagini verso l’impostazione accusatoria senza che esista un vero contrappeso normativo in caso di omissione di attività favorevoli all’indagato. La proclamata “cultura della giurisdizione” non si traduce, dunque, in obblighi concreti ed effettivi, ma resta un principio di cornice, affidato alla sensibilità individuale dei singoli magistrati.
La Corte, dal canto suo, offre alla difesa l’alternativa delle indagini difensive. È vero: l’ordinamento prevede che l’avvocato possa attivarsi autonomamente, raccogliere prove, sentire testimoni, acquisire documenti. Ma qui emerge un nodo strutturale difficilmente superabile: le indagini difensive sono a carico della parte privata. Devono essere finanziate dal difensore o dall’assistito, con costi spesso insostenibili, soprattutto nei procedimenti che coinvolgono soggetti indigenti o dove i margini economici della difesa sono ristretti.
Sul fronte opposto, il pubblico ministero può contare su strumenti di enorme impatto: intercettazioni telefoniche e ambientali, sequestri, perquisizioni, acquisizioni documentali d’ufficio, il tutto con la forza pubblica al proprio fianco e con risorse illimitate garantite dallo Stato. Il risultato è una disparità evidente: un sistema in cui l’accusa dispone di un arsenale investigativo straordinario, mentre la difesa deve arrangiarsi con mezzi limitati e senza strumenti coercitivi.
Parlare, in questo contesto, di piena equivalenza tra indagini difensive e indagini del pm significa ignorare la realtà. Le prime hanno un valore teorico importante, ma nella sostanza operano in condizioni di asimmetria strutturale. La bilancia non è in equilibrio e il processo penale, che dovrebbe fondarsi sul principio di parità delle armi, finisce per risentirne.
In questa prospettiva, la riforma della separazione delle carriere potrebbe rappresentare non un pericolo, ma un’occasione di trasparenza. Riconoscere il pubblico ministero per quello che è — una parte a tutti gli effetti, con i suoi strumenti e i suoi limiti — significherebbe restituire chiarezza al sistema. Il giudice resterebbe terzo, l’accusa verrebbe distinta dall’organo giudicante e la difesa avrebbe il suo spazio, senza più affidarsi all’illusione di una cultura comune che, come dimostrano pronunce come questa, non garantisce alcun rimedio concreto.
La vera sfida, allora, non è limitarsi a constatare che il pubblico ministero dispone di poteri e risorse incomparabili rispetto alla difesa, ma intervenire affinché il dovere di indagare anche a favore dell’indagato non resti lettera morta. Rendere effettivo l’articolo 358 c.p.p. significa prevedere strumenti di controllo e conseguenze concrete in caso di omissione, trasformando un principio oggi meramente programmatico in una garanzia reale. Solo così si potrà restituire credibilità al processo penale come luogo di ricerca della verità, e non soltanto come terreno di scontro sbilanciato tra accusa e difesa.