C’è un’inchiesta su un gruppo di femministe accusate di stalking e diffamazione. Fin qui, una storia giudiziaria come tante. Ma con la chiusura delle indagini è arrivato il solito cortocircuito: le chat private delle indagate — e anche di persone che non lo sono affatto — sono finite ovunque. Pagine e pagine di conversazioni, pezzi di vita, insulti, ironie, giudizi su chiunque, da Mattarella a Segre, decontestualizzati e trasformati in materiale da talk show.

La giustificazione è sempre la stessa: serve per capire il metodo. Per bacchettare e punire l’incoerenza - da qualche tempo a questa parte peccato capitale a targhe alterne. Solo che no, non serve a capire nulla. Quelle chat non spiegano il reato contestato, non aiutano a ricostruire un fatto. Servono solo a disegnare un profilo, a scolpire il volto del “mostro”, a rendere più credibile il racconto della colpa. Proprio mentre si accusa quelle persone di fare la stessa cosa: usare la vita privata degli altri (manipolarla, pure) per eliminarli dalla vita pubblica.

La costruzione di un profilo psicologico, però, non spetta ai giornalisti e nemmeno ai commentatori da tastiera. È un lavoro serio, complicato, affidato — se serve — a periti e professionisti. Farlo a colpi di screenshot e tramite la selezione chirurgica di messaggi — magari sbagliando anche a indicare l’autore delle frasi “incriminate” — è un esercizio che svilisce tutto: la giustizia, il giornalismo e la dignità delle persone coinvolte.

Nulla di quanto si può leggere in quelle chat è condivisibile. Ma non è importante: non era condiviso. Era un fatto privato, che non costituisce reato. E fintanto che non esiste un controllo morale diffuso che sanzioni le brutture caratteriali lasciate a briglia sciolta nel calduccio delle nostre chat private, restiamo liberi da una cultura del controllo che pretende il politicamente corretto anche fuori dalla scena pubblica. Purché, ovviamente, si tratti di avversari.

C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel dire che diffondere conversazioni private serva a “spiegare il contesto”. È una scusa. Quelle chat non raccontano il contesto: recidono la vita delle persone. Assomiglia a una vendetta, che spalanca la porta al processo mediatico, come sempre in largo anticipo su quello vero. Lo si evoca, il processo, parlando - come fatto da alcuni giornali - di “Tribunale social”, una definizione utile per descrivere il presunto metodo d’azione delle donne oggi indagate.

Ma è curioso: la stessa definizione viene usata da testate che applicano — in questo caso — lo stesso identico metodo per processare mediaticamente le indagate (e gli altri a cui tocca la stessa sorte). E se un giorno dovessero risultare innocenti — succede, anche quando le accuse sembrano solidissime — cosa resterà della loro reputazione? Chi cancellerà le frasi rilanciate mille volte, gli screenshot salvati, i titoli urlati? Il loro identikit tracciato da sconosciuti? E se invece fossero colpevoli, questa pena accessoria — l’esposizione, la ridicolizzazione, la condanna permanente dell’opinione pubblica, la riduzione della vita a un francobollo di parole estirpato dal resto — sarà mai proporzionata alla colpa?

Il punto non è assolvere nessuno, non è un esercizio di innocentismo ad ogni costo, il voler sembrare per forza “Bastian contrari”. È una questione di misura. Perché trasformare ogni chat in un documento pubblico, ogni sfogo in una prova morale, non vuol dire fare informazione, ma esercitare violenza. Non dissimile da quella che si dice di condannare. Se la selezione di ciò che viene diffuso dagli atti giudiziari, poi, non risponde a criteri trasparenti e verificabili, il rischio è che la narrazione mediatica finisca per sovrapporsi alla realtà processuale.

Il diritto di cronaca è sacro, ma la sua forza sta nella capacità di distinguere ciò che serve a capire un fatto da ciò che serve solo a indignare, ad assecondare istinti pruriginosi e volgari. Quando questa distinzione svanisce, a perdere non è solo la privacy dei singoli, ma la credibilità dell’informazione stessa. Siamo così assuefatti al frastuono che non ci accorgiamo più della violenza operativa di questo meccanismo. Ogni volta che leggiamo una chat “rubata” partecipiamo alla costruzione del mostro di turno, convinti di cercare — addirittura di vedere — la verità. Ma la verità, quella autentica, non ha bisogno di spettacolo. Ha bisogno di tempo, di silenzio. E di regole.

L’articolo 15 della Costituzione tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione. È un principio semplice e fondamentale: non tutto ciò che è accessibile deve diventare pubblico. È accettabile che frammenti della vita privata di cittadini, anche non indagati (è accaduto anche questo), diventino materiale di esposizione mediatica senza alcun rilievo penale? Con quale diritto la curiosità del pubblico prevale sulla dignità delle persone? Davvero vogliamo vivere in un Paese dove nessuna parola privata è al sicuro? Non è più cronaca, è l’estetica della gogna. E sembra piacerci anche troppo.