«Volete sapere come continua a funzionare il sistema? Ve lo racconto io». L’ex laico del Csm Stefano Cavanna è un fiume in piena. E conferma quanto pubblicato su Dubbio la settimana scorsa: le dinamiche correntizie che hanno caratterizzato le degenerazioni della scorsa legislatura sono ancora vive, tant’è che le correnti si riuniscono a Palazzo dei Marescialli con i loro segretari. E a nulla sarebbe servita la riforma Cartabia, che anzi ha eliminato una previsione potenzialmente utile della riforma Bonafede, finalizzata a proteggere l’indipendenza del singolo consigliere. L'ex ministro della Giustizia aveva infatti proposto di vietare «l’aggregazione, anche di fatto, dei singoli consiglieri su programmi comuni, per iniziative congiunte, per l’elaborazione di idee programmatiche dell’azione consiliare; e ciò sul presupposto che, disvelando tale condivisione l’appartenenza degli stessi alla medesima area “ideologica”, ne risulterebbero intaccati i valori dell’indipendenza e dell’autonomia cui occorre improntare l’esercizio del mandato consiliare».

Un’impostazione fortemente criticata dai togati, che scrissero un parere contrario a tale previsione, ad eccezione dei soliti “dissidenti” in Consiglio, tra i quali Nino Di Matteo, che aveva auspicato, invece, una messa al bando di tutte le “prassi” ed i comportamenti capaci di evocare il legame dei consiglieri con l’attività associativa e i gruppi di riferimento. A vincere furono coloro i quali pensavano che il divieto che il legislatore voleva introdurre non avesse solo valore “simbolico”, ma fosse indirizzato a «connotare in termini di illiceità il comportamento dei singoli consiglieri». E così la riforma Cartabia ha lasciato tutto com’era, consentendo, secondo Cavanna, di mantenere viva quella prassi che spalanca ora le porte di Palazzo dei Marescialli anche a soggetti estranei al Consiglio, in primis i segretari delle correnti, che discutono delle strategie consiliari assieme a coloro che sono stati eletti per rappresentare le toghe in plenum.

Il progetto Bonafede, commenta Cavanna, «provocò la reazione interessata di buona parte della componente togata (dentro e fuori il Csm), quella correntizia, che arrivò a dileggiare il ministro e la sua proposta, con ragionamenti tipo: “formeremo un gruppo se ci riuniremo al bar per prendere un caffè?”. Era evidente la strumentalità pelosa della posizione. Chi aveva scritto la norma conosceva bene il “funzionamento” del Consiglio, dove tutto è organizzato, anche fisicamente per “gruppi”». Tant’è, evidenzia Cavanna, che le stesse stanze degli uffici vengono assegnate, ad ogni cambio di consiliatura, «rispettando un criterio di omogeneità “logistica” tale da fare si che un “gruppo” abbia tutti i propri consiglieri sistemati in stanze attigue, possibilmente insieme agli assistenti di studio». Un ragionamento che vale anche per i laici, che vengono “associati” in base al colore politico di cui sono espressione. Ma non solo: vi è poi «una serie poderosa di accortezze organizzative e “politiche” volte a mantenere il peso dei gruppi ( correnti) quali “partiti” in grado di esprimere consiglieri agli esiti delle elezioni togate», sottolinea Cavanna. Un esempio? «Al periodico cambio parziale di composizione delle commissioni che prima della riforma Cartabia avveniva ogni anno, veniva richiesto ai consiglieri di esprimere preferenze sulle commissioni a cui partecipare - sottolinea l’ex membro laico del Csm -. In una occasione mi fu espressamente detto che non avrei potuto essere assegnato ad una certa Commissione per il rispetto dell’” equilibrio” fra le varie componenti».

La riforma Bonafede, almeno per quanto riguarda questo aspetto, avrebbe dunque «minato la plastica e concreta espressione e celebrazione del criterio di appartenenza all’interno Consiglio e nel suo funzionamento», prevedendo ad esempio, all’articolo 21, il sorteggio per la composizione delle commissioni. «Fui stoppato sulla quinta commissione per mantenere l’equilibrio consigliare destra/ sinistra - sottolinea Cavanna - perché il posto della destra era già coperto».

La riforma Bonafede prevedeva anche un concorso pubblico per i magistrati segretari - che oggi, come spiegato da una fonte interna al Consiglio, si riuniscono assieme ai gruppi nelle stanze del Csm -. La norma prevede attualmente una procedura di valutazione dei titoli e un colloquio, prassi identica per l’ufficio studi, che fa sparire la prova scritta, elemento oggettivo impugnabile anche da magistrati eventualmente esclusi dalla selezione.

Una procedura paradossalmente mutuata da una proposta di Cavanna, che tentò di modificare il sistema precedente, quando la scelta era totalmente discrezionale ed in mano alle correnti. «Dopo lo scandalo, io che ero membro della terza commissione (che si occupa dell'accesso in magistratura e della mobilità, ndr), tentai di ridurre la discrezionalità e riuscii a fare approvare una modalità operativa che trasformava l’audizione in una vera interrogazione - prova orale su argomenti di ordinamento giudiziario, con domande sorteggiate sul momento - spiega ancora Cavanna -. Questa procedura, avallata dalle correnti, fu una rivoluzione» ed alla sua prima applicazione «ci furono scende stizzite da parte dei candidati che pensavano di avere in tasca l’incarico senza avere studiato». Nonostante ciò, Cavanna decise di astenersi in plenum, «ritenendo non sufficiente il compromesso, essendo necessaria la prova scritta, in quanto le correnti erano comunque in grado di pilotare la scelta». Capacità che continuano a dimostrare.