AVEVA 91 ANNI

Ma quale datato: Jean Luc Godard e il suo cinema venivano direttamente dal futuro, riparliamone fra qualche secolo e vediamo chi avrà avuto ragione!

Noi non abbiamo fatto molto per meritarcelo il grande regista franco- svizzero, scomparso ieri a quasi 92 anni tramite suicidio volontario. Non perché fosse malato ma perché si sentiva semplicemente «sfinito». Lui che ci aveva indicato una strada diversa, sgrammaticata e luminosa, che ci aveva insegnato a trasgredire la norma estetica, a non fidarci mai della tecnica e del professionismo, della “bravura” e dello star system, che aveva fatto del cinema un campo di battaglia e un contro- potere in senso lato, una spina nel fianco della politica, delle accademie, delle industrie e soprattutto del linguaggio che ha destrutturato e fatto a pezzi in ogni modo possibile, al pari di Joyce nella letteratura e di Lacan nella psicoanalisi.

Ma noi contemporanei ( boomer, millenial, generazioni x e y poco importa) in questi decenni siamo andati dalla parte opposta, abbiamo smesso di sperimentare e di trasgredire, siamo diventati polli da batteria dell’intrattenimento a distanza, divoratori bulimici di storie seriali, sudditi volontari delle piattaforme streaming, spiaggiati come balene nell’opulenza capricciosa dell’on demand, nella morbosa routine con cui ci affezioniamo a personaggi fittizi che trasformiamo in altrettanti amici immaginari per colmare la solitudine.

Ci siamo abituati ai cerchi che si chiudono, alle domande con una sola risposta, alla risoluzione meccanica di ogni conflitto, alla chiosa morale, alla spiegazione pedante o al facile sarcasmo, noi, cosa abbiamo a che fare con l’opera aperta di Godard, con la sua sensibilità e la sua intelligenza? Noi che il nostro terrore più grande si chiama spoiler, questo mostro feroce e ghignante alla Lovecraft che incombe minaccioso e allo stesso tempo ridicolo in ogni conversazione. Insomma, per noi zombie da divano, cavie decadenti di Netflix e gli altri Godard è stato davvero un marziano incompreso.

Anche quando lo abbiamo incensato per snobismo, fin dal lontanissimo 1960 anno in cui nelle sale parigine esce A bout de souffle. E ci sarebbe mancato altro: il film è una rivelazione potente, qualcosa di mai visto prima su uno schermo, un oggetto indecifrabile e pieno di fascino, girato con mezzi di fortuna e con un budget risibile, saltellante come la colonna sonora jazz che l’accompagna, la cinepresa spesso nascosta tra la folla perché il cinema è «la messa in scena della vita» e un montaggio ipnotico, scorretto e straniante. Nella Francia gollista e conservatrice, impicciata nei conflitti post coloniali in Indocina e Algeria, assuefatta alla narrazione lineare dei vecchi film di genere e del suo repertorio “di qualità”, A bout de souffle è un oggetto che proviene da un’altra dimensione.

La pellicola diventa immediatamente il manifesto della Nouvelle vague nonostante il fortunato Les 400 coups di Truffaut fosse uscito l’anno precedente.

Ma se Truffaut è stato un grande narratore letterario, un regista di storie e di attori, un talentuoso “riformista” della macchina da presa come anche l’amico Chabrol, Godard era il profeta della rivoluzione applicata al cinema, un predicatore misantropo, di cultura protestante e di idee socialiste che ha intrecciato il sacro e il profano, Karl Marx e i Rolling Stones, la vergine Maria e l’invasione sovietica di Praga, il Vietnam e William Shakespeare, la natura incontaminata e le alienanti metropoli moderne.

Sono oltre cento i film che ha realizzato in quasi sessant’anni di carriera tra lungometraggi, “corti”, interviste e documentari, una produzione irregolare, frammentaria ed enciclopedica, una continua confessione d’amore per il cinema e per lo sguardo che gli dà vita irriducibile alla performance dell’occhio, mescolando e sovrapponendo i generi e gli stili, confrontandosi a muso duro con altri invadenti e infestanti mezzi come la televisione, togliendo punti di riferimento alla pigrizia della critica e del pubblico, spesso prendendoli entrambi per i fondelli.

Questa è stata l’etica rivoluzionaria del “cineclasta” Jean Luc Godard, la religione dell’immagine che ha professato devotamente e con coerenza a cavallo dei due secoli della celluloide, combattendo nel nome del dio cinema una battaglia furibonda ma già persa in partenza.