Giornata drammatica in Senato. Il centrodestra si ricompatta e non vota la fiducia. Gelmini lascia il Cav

La fiducia al Senato arriva, ma i sì sono solo 95. Mancano i voti di Lega e Forza Italia, che decidono di uscire dall’Aula, e quelli del Movimento 5Stelle che rimangono in Aula solo per garantire il numero legale.

Finisce così l’era Draghi. Finisce dopo una giornata drammatica che si è consumata in Senato dove un centrodestra di governo ( Lega e Fi) compatto ha guidato lo strappo e ha “sfiduciato” l’ex presidente della Bce.

Domattina il premier sarà alla Camera per il secondo passaggio parlamentare della crisi.

DELGADO, PULETTI E VAZZANA Giornata drammatica a Palazzo Madama M5S, Lega e forzisti non votano la fiducia Ora palla a Mattarella

Sarà che ieri era la giornata mondiale degli scacchi, ma la prima parte della crisi di governo è finita con tre partiti, Lega, M5S e Forza Italia, che hanno fatto scacco al re. O meglio, al presidente del Consiglio, Mario Draghi. Che ha dovuto assistere a una fiducia votata soltanto da 133 senatori, appena sufficienti a garantire il numero legale e tradottisi in 95 voti a favore, 38 contrari e nessun astenuto.

Leghisti e forzisti non hanno partecipato al voto, così come i grillini, che si sono dichiarati “presenti non votanti” giusto per non rendere vana la votazione. «Bizantinismi», l’ha definiti poco dopo il segretario del Pd, Enrico Letta. Draghi ha deciso di non salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni ieri sera, ma ormai è questione di ore. Questa mattina nuovo passaggio a Montecitorio, poi la palla passerà nelle mani del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che con ogni probabilità procederà allo scioglimento delle Camere, per poi indire elezioni anticipate tra fine settembre e inizio ottobre.

Ripercorriamo, in ordine, la giornata più lunga del governo Draghi, iniziata al mattino con le comunicazioni del presidente del Consiglio in Senato, come previsto dopo le dimissioni della scorsa settimana, non accolte dal capo dello Stato. Lì, l’inquilino di palazzo Chigi, circondato dai ministri del suo governo, ha ripercorso i diciotto mesi di lavoro, per poi sferzare i partiti sulla necessità di rinnovare il patto di fiducia alla base dell’esecutivo.

In poco più di mezz’ora, Draghi ha definito la scelta delle dimissioni «tanto sofferta quanto dovuta», per poi spiegare che «l’unità nazionale è stata la miglior garanzia della legittimità democratica di questo esecutivo e della sua efficacia». Un discorso emotivo e duro, quello dell’ex presidente della Bce, secondo il quale «un presidente del Consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori deve avere in Parlamento «il sostegno più ampio possibile». Un sostegno garantito da tutti i partiti di maggioranza fino a poche settimane fa, quando sul decreto Aiuti è saltato il tappo. «Purtroppo - ha aggiunto Draghi - con il passare dei mesi, alla domanda di coesione che arrivava dai cittadini le forze politiche hanno opposto un crescente desiderio di distinguo e divisione». Come sulla decisione di armare l’Ucraina, «l’unico modo per permettere all’Ucraina di difendersi». Poco dopo è stata la volta della stoccata al Movimento 5 Stelle. «Non votare la fiducia a un governo di cui si fa parte è un gesto politico chiaro, che ha un significato evidente - ha sottolineato il presidente del Consiglio, non sapendo ancora che sarebbe finita peggio di com’era iniziata - Non è possibile ignorarlo, perché equivarrebbe a ignorare il Parlamento, non è possibile contenerlo, perché vorrebbe dire che chiunque può ripeterlo, non è possibile minimizzarlo, perché viene dopo mesi di strappi ed ultimatum: l’unica strada, se vogliamo ancora restare insieme, è ricostruire da capo questo patto, con coraggio, altruismo, credibilità». Siete pronti? Ha chiesto poi alle forze politiche. Le quali, poche ore dopo, hanno risposto picche.

Se il Movimento 5 Stelle non ha ricevuto rassicurazioni sugli ormai famosi 9 punti posti dal leader Giuseppe Conte, Lega e Forza Italia non hanno accettato la tirata di orecchie sulle polemiche legate alla riforma del catasto e a quella della concorrenza, citate da Draghi con tanto di richiamo contro la protesta di tassisti e titolari di concessioni balneari.

E così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha convocato tutti a Villa grande e ne è uscito un altro vertice fiume, svoltosi negli stessi momenti in cui il capogruppo del Carroccio a palazzo Madama, Massimiliano Romeo, annunciava una risoluzione di leghisti e forzisti per un Draghi bis senza i Cinque Stelle e con un corposo rimpasto di governo. Richiesta rigettata al mittente da palazzo Chigi. A metà pomeriggio, l’unica risoluzione in campo era quella di Pierferdinando Casini, a favore dell’esecutivo. Nella replica, brevissima, Draghi ha ringraziato i ministri per l’impegno svolto e ha richiamato il Movimento 5 Stelle su reddito di cittadinanza e Superbonus. Un ultimo assist, non accolto, al centrodestra. Ma nei corridoi di palazzo Madama già impazzava il chiacchiericcio su chi, tra M5S da un lato e Lega e Forza Italia dall’altro, si sarebbe preso la responsabilità di non votare la fiducia a Draghi. In pochi minuti il dilemma è stato risolto: nessuno. La decisioni infatti è quella di uscire dall’Aula. L’ennesimo, vile gesto d’ipocrisia dopo decine di discorsi sulla centralità del Parlamento.

Fino all’ultimo si prova a ricucire, si muove anche il Quirinale. Mattarella sente al telefono tutti i leader di maggioranza, Letta prova a convincere Conte a votare la fiducia ma non c’è niente da fare. Salvini e Berlusconi hanno già sentito Giorgia Meloni, che gongola, e sono pronti al voto. «Oggi è l’ultima puntata del vostro reality show», dice il leader di Italia viva, Matteo Renzi, in dichiarazione di voto. Salvini non parla, manda avanti Stefano Candiani, che come la capogruppo M5S, Mariolina Castellone, ribadisce quel che già si sa. Il governo Draghi è al capolinea. Letta parla di «giorno di follia» in cui «il Parlamento decide di mettersi contro l’Italia». Per poi invocare il voto. «Gli italiani dimostreranno nelle urne di essere più saggi dei loro rappresentanti». Salvini riunisce i suoi parlamentari, definisce Draghi «vittima di Pd e Cinque Stelle» e sprona i suoi in vista della campagna elettorale. Nel frattempo Forza Italia ribolle. La ministra agli Affari regionali, Mariastella Gelmini, abbandona il partito accusandolo di aver «voltato le spalle agli italiani», dopo essere venuta quasi alle mani con la ( ex) collega di partito Licia Ronzulli. Andrea Cangini è l’unico a votare la fiducia in dissenso dal gruppo, ma le voci su una fronda di azzurri “draghiani” si moltiplicano. Il M5S va in ordine sparso, Conte parla di «parole sprezzanti» da parte dell’ex presidente della Bce. Per il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è «una pagina nera per l’Italia» e «la politica ha fallito». Ora è tutto nelle mani del presidente della Repubblica, che dovrà dichiarare chiusa la partita. Scacco matto.