“Scarcerato l’omicida. Uccise un 94enne durante una rapina. Ha trascorso 17 mesi in cella: sconterà gli ultimi 23 anni ai domiciliari”
Non è una boutade: è il titolo di prima pagina de Il Tirreno del 25 gennaio. Saremmo curiosi di leggere il provvedimento che ha dichiarato che i 23 anni comminati con condanna non definitiva saranno tutti scontati ai domiciliari. Ci piacerebbe perché una volta tanto potremmo buttare nel macero quei fastidiosi codici di procedura penale e occuparci di altro.
Ma stanno lì, anno dopo anno, a riempire le nostre librerie, a ricordarci di onorare sempre l’imperativo socratico del “sapere di non sapere”: hai voglia ad affannarti, salterà fuori sempre quella piccola postilla inserita da un decreto legge emergenziale, oppure si aprirà qualche varco all’interpretazione creativa della giurisprudenza. Insomma non dormiamo mai sogni riposanti, noi difensori.
Quando abbiamo letto quel titolo ci siamo chiesti se nottetempo avevano messo mano proprio ai principi basilari. Ma il dubbio è durato poco. E in fondo, di fronte ad un titolo del genere: “omicida scarcerato passerà i prossimi 23 anni ai domiciliari”, non occorre affannarsi un granché. Ci viene in soccorso subito una certezza. Non c’è neppure bisogno di aprirlo il codice per comprendere che non è possibile. Che il titolo del Tirreno è sbagliato e che, come al solito, l’informazione veicolata è palesemente, gravemente errata. L’omicida - come lo chiama il Tirreno - è un uomo condannato a 23 anni in primo grado (non sappiamo ancora bene quali sono le ragioni di questa pena: le motivazioni della sentenza neppure risultano depositate) e quindi non sta scontando la pena, che non è definitiva. È in carcere - ancora per poco, a quanto pare - in esecuzione di un’ordinanza cautelare.
Riavvolgiamo il nastro ai principi generali. Le misure cautelari sono comminate a chi risulta raggiunto da gravi indizi di reato (e qui certamente ci sono essendoci una prima sentenza di condanna, ancorché non definitiva). Ma non basta: c’è bisogno di un ulteriore accertamento che serve proprio a stabilire in che modo la libertà possa concretizzare un particolare pericolo (anzi tre, quelli tipizzati dalla norma) che si vuole evitare. La libertà personale può essere limitata, prima di una sentenza di condanna definitiva, solo se ci sono esigenze cautelari, appunto, di protezione di alcuni beni.
Per chiarire: se il giudice ritiene che un imputato, lasciato libero, possa commettere un altro reato, inquinare le prove, darsi alla fuga, può limitare la sua libertà persona. Se così non fosse, il sistema soffrirebbe un’insanabile contraddizione: da una parte - articolo 27 della Costituzione - impone che l’imputato non sia considerato colpevole sino alla condanna definitiva e, dall’altro, consente di mettere in carcere un imputato non ancora considerato colpevole in via definitiva.
Come stanno insieme queste due situazioni apparentemente non contrasto? Proprio in virtù delle esigenze cautelari che consentono di intervenire prima di una condanna in molti modi. Con il carcere - extrema ratio-, con gli arresti domiciliari, con l’allontanamento dalla casa familiare, con il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, con l’obbligo o divieto di dimora in un determinato Comune, con l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (il c.d obbligo di firma).
C’è anche un’altra condizione imprescindibile: si usa, per definirla, una parola chiara, la proporzionalità. In sostanza il giudice deve rispondere a questa semplice domanda: per garantire il processo e la collettività da quei tre rischi, quale misura devo applicare? Quella più proporzionata per evitarlo. La domanda, dietro l’angolo, ce l’aspettiamo: come è possibile però che un omicida, reo confesso, condannato a 23 anni non stia in carcere? Semplice: perché quella condanna non è ancora definitiva e non può essere eseguita.
Ma state pure sereni: non è tecnicamente possibile che esegua la condanna, se sarà confermata nei gradi successivi a 23 anni, agli arresti domiciliari che sono e restano una misura provvisoria e cautelare che durerà fintanto che il processo non sarà concluso. In quel caso, l’imputato condannato ad una pena così elevata, se confermata in tutti i gradi di giudizio, tornerà in carcere.
Ma per tenere dentro un imputato non ancora condannato in via definitiva, il giudice deve verificare se ci sono ancora esigenze cautelari e, se ci sono ancora, deve individuare - lo deve fare necessariamente per legge - quale misura risulti adeguata a fronteggiare quei rischi.
Supponiamo che sia stato valutato un probabile rischio di recidiva (anche se il tipo di delitto commesso, legato alla droga, come pare leggersi dall’articolo, sembrerebbe irriproducibile ora che si è disintossicato): come è possibile che commetta un altro delitto chi è ristretto gli arresti domiciliari con un braccialetto elettronico che monitora i suoi movimenti persino in bagno?
Quest’uomo, sia chiaro, non torna libero.
Dovrà stare in casa con un dispositivo elettronico che darà un impulso in caso di fuga. Perché l’arresto domiciliare con braccialetto elettronico, è stato considerato adeguato, legittimamente, a fronteggiare il rischio - non sappiamo quale dei tre visto che l’articolo non si preoccupa di darci questa notizia - rilevato dai giudici. Vi diciamo di più: quest’uomo poteva anche tornare libero, se non fossero stati ravvisati dei rischi. Perché non basta essere gravato da indizi di reato, anche se robusti, per essere ristretti nella libertà personale prima di una condanna.
La misura cautelare, piaccia o non piaccia (e sappiamo che non piace finché non vengono toccati interessi personali, finché il lettore ben pensante leone da tastiera, o suo figlio o figlia, suo padre, suo marito, sua moglie, sua madre non hanno problemi con la giustizia, allora sì che diventerà garantista e sarà felice di avere un difensore che si batte per i suoi diritti) non è una sentenza di condanna.
Non le somiglia per niente: non le deve somigliare finché avremo questa Costituzione, che traballa, vacilla, ma vivaddio, resta ancora in piedi, a far da argine a notizie scandalistiche e all’indignazione di chi, anche in questo caso, ha propiziato i social con la solita litanìa delle minacce e con la consueta idolatria della legge del taglione. “Andresti beccato ogni volta che esci di casa, bastardo”; “deve marcire in carcere”; “non vale nulla, legge del taglione” (cioè per intendersi: pena di morte), “come fanno a dormire i giudici?”; “Poi se uno si fa giustizia da sé”. Sono solo alcuni dei commenti pubblicati a margine dell’articolo.
Vi diamo l’ultima notizia: dente per dente, occhio per occhio (se il dente e l’occhio sono reati) sono a loro volta nuovi reati, buoni solo a innalzare il livello di violenza e la spirale di reazioni anch’esse criminali a cui faranno seguito altre reazioni criminali e così via, senza soluzione di continuità.
Un articolo di stampa deve spiegare come funziona un sistema, non strizzare l’occhio all’allarmismo mistificando la realtà. Non che questo, al giorno d’oggi, basterebbe a placare animi incrostati d’odio, ma almeno restituirebbe dignità ad un servizio pubblico essenziale.

La Camera Penale di Livorno