Enzo Tortora è tantissime cose. Un simbolo che riassume i mali della nostra giustizia. Una costellazione di date che ne scandisce la storia e che periodicamente ci solleva dall’oblio per guardare negli occhi il «crimine giudiziario» che il conduttore aveva subito.

17 giugno 1983, l’inizio: l’arresto studiato a favore di telecamere all’Hotel Plaza di Roma, la “passerella della vergogna” coi ceppi ai polsi. 18 maggio 1988, la fine: il tumore si porta via Enzo Tortora tra le braccia della sua compagna di vita e di lotta Francesca Scopelliti.

Un anno dopo l’assoluzione definitiva che aveva sancito l’innocenza del giornalista, la malattia ha il sopravvento. Esplode: «Era quella bomba al cobalto di cui parlò al momento dell’arresto», racconta in occasione dell’anniversario Scopelliti, presidente della Fondazione che porta il nome di Tortora per tenerne vivo il ricordo. Ancora oggi le sembra «inaccettabile» morire di malagiustizia. «È il dolore più grande», ammette. Prima di concederci un’altra immagine dell’ultimo giorno di Tortora: «È come se avesse tirato i remi in barca, dopo aver risolto tutte le questioni che aveva in sospeso: si è ritirato, lasciandosi portare alla deriva».

Scopelliti allude alle grandi battaglie degli anni prima. Quelle nei giorni del carcere, tra i detenuti, quelle con Marco Pannella per i referendum della giustizia. E ancora il celebre “Dunque, dove eravamo rimasti?”, pronunciato in tv dopo l’ingiustizia e la gogna subita. Da allora, dalla sua morte, sono passati 36 anni e ricordarci di Tortora e del suo caso è più importante che mai. «Il primo tentativo è stato di dimenticarlo: non bisognava parlarne perché incideva sulla cattiva coscienza di tanti: magistrati, giornalisti, politici. Cioè tutti coloro che non hanno saputo affrontare ciò che Enzo ha dichiarato essere fin dall’inizio una vergogna giuridica».

Ma la rimozione collettiva, quella no, non è riuscita. Scopelliti lo scopre giorno dopo giorno, nei dibattiti che la vedono impegnata in giro per l’Italia. L’ultimo oggi, nel giorno della “vigilia”, tra i detenuti del carcere di Opera di Milano dove si è tenuto un evento organizzato con Nessuno Tocchi Caino, “Compresenza”, per ricordare Tortora, Pannella e Mariateresa Di Lascia, intellettuale radicale e fondatrice dell’Associazione.

«Quando entro in carcere non mi sento mai a disagio: è come se quell’ambiente mi fosse familiare» confessa Scopelliti. Che in prossimità del giorno più doloroso ha scelto proprio i detenuti come pubblico prediletto. Quegli stessi detenuti, compagni di cella, a cui Tortora voleva dare voce, «coloro - diceva - che parlare non possono, che sono tanti e che sono troppi». Li avevi incontrati prima nel carcere di Roma, a Regina Coeli, nei terribili mesi prima degli arresti domiciliari di cui resta traccia nel libro realizzato con i penalisti, “Lettere a Francesca” (Pacini editore). In quel carteggio Tortora racconta dell’inumanità della pena. Di quel tempo vuoto, straziante, in attesa del processo. Dietro le sbarre da innocente, mentre nel mondo di fuori fabbricavano il suo destino.

Per lui i magistrati avevano formulato un’accusa infamante: traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Il nome lo avevano tirato fuori i pentiti, e per il resto era bastato un pizzico di immaginazione: troppo ghiotta l’occasione di mettere in “copertina” di inchiesta il volto noto del conduttore di Portobello. Da lì, il processo mediatico che anticipò quello vero. Con la condanna a 10 anni in primo grado nel 1985. Quindi il ribaltamento nel 1986, in Corte d’Appello a Napoli. Merito soprattutto del giudice Michele Morello, che spianò la strada per l’assoluzione. Resa definitiva dalla Cassazione un anno dopo, e uno prima della morte.

Siamo di nuovo al maggio 1988. Francesca Scopelliti telefona a Marco Pannella e gli dà la notizia peggiore: Enzo Tortora se ne è andato. Il leader radicale prende parola alla Camera dei deputati mezz’ora dopo. Un minuto di silenzio. “Enzo Tortora - scandisce Pannella - non va considerato come una vittima, perché ha saputo non essere consenziente allo strazio di legalità e di diritto, perché non è stato tonto, non ha accettato il ruolo tragico di vittima, non ha consentito che la giustizia fosse vittima. Enzo Tortora ci lascia sperare... Tortora era un uomo di cultura e non di potere, né nelle istituzioni né nella professione... Era un liberale. E accadde anche a lui di esserlo “altrove” per meglio esserlo, fino alla fine. Era un radicale... Era, dicono, “un presentatore”. Ma nessuno come lui ha “rappresentato” e non “presentato” o commentato, la passione per la giustizia, l’amore per coloro che la condividevano o per coloro che ne soffrivano la mancanza o la violenza. Era anche capace di essere spietato: ma la carità è dura, non melassa. Ha conosciuto anche lo strazio dell’aver intelligenza e ragione: perché quel che la ragione e l’intelligenza vedono oggi è e non può essere che dolore, causa di dolore”.