Mentre i suoi compagni di partito si ubriacano di porti chiusi e taxi del mare, brindando per più di un anno alla nuova era salviniana, lei, a pochi chilometri di distanza continua a tessere la sua trama in direzione opposta. Perché, se c’è una regista, di certo una pioniera, dell’operazione giallo- rossa non può che essere Roberta Lombardi.

La “faraona”- il nomignolo che le hanno maliziosamente assegnato per descrivere la sua forte influenza sui grillini capitolini e allo stesso tempo sminuirne le capacità politiche - comincia infatti a dialogare con Nicola Zingaretti nelle stesse ore in cui Luigi Di Maio avvia i primi contatti ravvicinati con Matteo Salvini nel marzo del 2018.

All’indomani delle Regionali nel Lazio, tenutesi nello stesso giorno delle Politiche, Lombardi guarda già altrove: ai numeri ristretti della fragilissima maggioranza dem e all’opportunità di offrire una sponda che segni il disgelo con gli storici rivali. Nessuna alleanza col Pd, chiaro, ma un’opposizione non belligerante in cambio dei temi da inserire in agenda: un’eresia pura in piena stagione sovranista. La sbandata le costa un litigio con Beppe Grillo, che pretende la spallata a Zingaretti, e un “richiamo” da Di Maio, che da tempo aspetta un suo passo falso per farle uno sgambetto.

Sì, perché la prima capogruppo alla Camera della storia pentestellata non ha troppi amici tra i maggiorenti del partito. Non la ama il capo politico, perennemente accusato dalla “faraona” di cesarismo, e non la ama Virginia Raggi con cui non è mai scattata la scintilla. Al massimo sono state scintille. Fin dal primo momento, da quando Lombardi vorrebbe candidare al Campidoglio il suo luogotenente Marcello De Vito, poi messo all’angolo dalla coppia Raggi- Frongia con la benedizione dei Casaleggio. L’ex parlamentare è costretta a ingoiare il rospo, senza tuttavia rinunciare alla battaglia, come quando si presenta in Procura per denunciare l’allora potentissimo Raffaele Marra, il «virus che ha infettato il Movimento», dando il via a un terremoto giudiziario che fa traballare la Giunta grillina.

Il prezzo da pagare però è altissimo: l’esilio. Via dal Parlamento, deve fare le valigie e traslocare verso lidi mediaticamente meno centrali: la Regione. Ma Lombardi non si scoraggia, anzi, approfitta del ruolo più defilato per cominciare a fare politica senza l’ossessione del controllo centrale.

Sono lontanissimi i giorni dell’umiliazione via streaming a Pierluigi Bersani orchestrata in combutta con Vito Crimi. «Scusa “Bersa”», dice parecchio tempo dopo l’ex capogruppo alla Camera, «mi dispiace che te la sei presa. La mia aggressività era dettata dalla timidezza. Ero aggressiva ma tanto timida». E lontanissime sono anche le gaffes sul fascismo buono.

Roberta col tempo impara a dosare le parole ma non rinuncia ai toni aspri quando lo ritiene opportuno. È l’unica ad avere il coraggio di criticare l’accentramento di poteri nelle mani di un solo uomo, il capo politico, e lo fa pubblicamente. Per esprimere dissenso non ricorre a gesti simbolici, alla Fico, interviene a viso aperto. «Di Maio ha avuto troppo da fare, diversi ruoli da gestire, ora è giusto che si concentri sugli Esteri e sul Movimento con un ottica più collegiale. Quella del capo politico - inteso come uomo solo al comando è una fase che va archiviata», scandisce sul Messaggero anche dopo la nascita del nuovo governo.

E ora che la passione giallo- verde si è spenta, Lombardi può finalmente rivendicare: il Lazio ha fatto da «laboratorio», da incubatrice di questo accordo nazionale, «i dem ci hanno ascoltato» e «abbiamo fatto diverse cose insieme, dal piano rifiuti a quello paesaggistico».

Ora c’è il Conte bis e anche questa stagione apre una fase nuova: quella in cui possono cadere gli ultimi tabù, come le alleanze a livello territoriale. Persino col Pd. La “faraona” ha tracciato la strada, adesso sta a Beppe Grillo coglierla fino in fondo.