Ha passato la vita intera china sulla materia, a cercare i sussuri invisibili della radioattività, la nuova energia strabiliante e spaventosa racchiusa negli atomi di elementi ancora senza nome, la stessa energia che le ha regalato due premi Nobel ( unica donna nella storia) e che alla fine l’ha portata alla morte per leucemia dopo decenni di esposizione ai micidiali raggi X.

I biografi l’hanno spesso descritto Maria Sklodowska, al secolo Marie Curie, come una scienziata austera devota alla fisica e alla chimica, dal carattere freddo, poco loquace, sempre vestita di nero, immersa in un mondo di ampolle fumanti, fiale colanti, liquidi incandescenti e apparecchi elettrici antidiluviani. Il classico stereotipo riservato alle donne che hanno successo negli ambienti maschili, maschilizzate da una pubblicistica che taglia con l’accetta ogni tratto e le reassegna al mondo dal quale tentano di emanciparsi.

Marie Curie era soprattutto un’appassionata e una disobbediente, pronta a trasgredire le regole per una giusta causa, a occuparsi degli altri a costo di rischiare la vita come accadde durante la Prima Guerra mondiale.

Nata a Varsavia nel 1867 sotto il dominio della Russia i suoi genitori e i suoi professori le insegnavano di nascosto la storia della Polonia, le parlavono di amore per la conoscenza e di libertà politica. Alla fine del liceo aderisce alle dottrine positiviste di Auguste Comnte e si iscrive all’ “Università volante”, un ateneo clandestino che si oppone all’egemonia dell’impero zarista animato da giovani insegnanti patrioti. Vuole approfondire le scienze, sogna una carriera accademica, prospettiva praticamente impossibile nella Polonia dominata dalla cappa oscurantista dei Romanov.

Così a 24 anni Maria prende un treno per Parigi dove raggiunge la sorella e il cognato; si iscrive alla facoltà di Scienze per seguire i corsi fisica, chimica e matematica che le sapalancano le porte dei laboratori universitari. È una studentessa brillante con una grande memoria e un straordinaria capacità di concentrazione. Il fisico Gabrel Lippman se ne accorge la chiama per aiutarlo in alcuni esperimenti sul magnetismo, lo stesso campo di cui si occupa l’istruttore di fisica sperimentale Pierre Curie, suo futuro marito e compagno di ricerca che incontra nel 1986.

Per dieci anni, fino alla morte di Pierre investito da una carrozza mentre stava tornando a casa, i due hanno lavorato strenuamente sulla radioattività ( intanto lei si laurea in fisica e scrive un dottorato sulle proprietà dell’uranio). Nel 1898 scoprono un elemento 400 volte più radioattivo dell’uranio, e lo battezzano polonio in onore della nazione natale di Marie, due anni dopo, scoprono il radio, nascosto in quantità infinitesimali all’interno di un minerale chiamato pechbenda: nasce l’era della radioattività. Nel 1903 i due coniugi vincono il Nobel per la fisica insieme a un altro scienziato francese, Henry Bequerel.

Nel 1906, a 39 anni Marie Curie si rireova vedova, con due figlie piccole da crescere. Una sventura, la perdita dell’amato Pierre, che le darà ancora più forza e tenacia nelle sue ricerche. Viene nominata, praticamente per acclamazione, docente di fisica alla prestigiosa Sorbona, anche in questo caso nessuna donna prima di lei aveva occupato quella cattedra. Nel 1911 ottiene il suo secondo premio Nobel, stavolta per la chimica grazie alla scoperta di polonio e radio.

Quando scoppia la Prima guerra mondiale si avvicina alle ricerche del dottor Antoine Béclère, uno dei pionieri nell’uso di raggi X a scopi diagnostici. Anche Marie crede fermamente che gli incredibili progressi della scienza di quegli anni possano salvare vite umane e arte per il fronte dove conosce l’orrore, i feriti straziati trasportati nei treni di bestiame, l’impotenza dei medici sovrastati dalle carneficinedelle battaglie, i malati che muiono per mancanza di cure, amputazioni sommarie eseguite alla cieca. Allora decide, contro il parere delle autorità, di creare una unità mobile di radiologia alimentata da una dinamo che si rivela uno strumento formidabile nell’individuare la posizione delle schegge di mortaio e dei proiettili prima delle operazioni. Grazie alla sua grande notorietà riesce ad attirare un fiume di donazioni private, una rete di conoscenze di medici, ricercatori, imprenditori, associazioni di mutalismo femminista come l’Union de femmes de France che lavora con la Croce rossa: la sua iniziativa è un successo: si calcola che le oltre 200 unità mobili di radiologia tra il 1914 e il 1918 abbiano salvato un milione di vite, mille direttamente dalla dottoressa Curie. Con lei la primogenita Irène, che a soli 17 anni assiste la madre nel lavoro di cura nel catino insaguinato della Grande Guerra. Avrebbe potuto proteggerla quella giovane parigina poco più che adoloscente invece di farle conoscere gli orrori del fronte, ma in lei la passione per la scienza si è sempre accompagnata con le battaglie per l’emancipazione femminile. Irène eredita quelle passioni brucianti e, quasi a coronare la saga di una famiglia fuori dal comune, anche lei vincerà il premio Nobel per la fisica nel 1935 assieme al suo sposo, il ricercatore Frédéric Joliot per la scoperta della radioattività artificiale.

Maria Sklodowska Curie, già colpita da una violenta forma di anemia plastica muore uccisa dalla leucemia il 4 luglio 1934 in una cittadina alla periferia di Parigi. Quelle radiazioni che lei aveva sperimentato con esiti positivi nella lotta di alcuni tumori alla lunga si sono rivelate fatali per la sua stessa salute. Ancora oggi, a oltre 80 anni dalla morte della geniale scienziata, i suoi appunti ( ma anche le sue ricette di cucina) sono conservati nella Biblioteca nazionale di Parigi in speciali scatole di piombo a causa della fortissima attività radioattiva.