“Tutti pazzi a Tel Aviv”, diretto dal palestinese Sameh Zoabi, fu presentato internazionalmente come Tel Aviv on fire, un titolo decisamente originale anche se poco rassicurante. Il film valse al protagonista Kais Nashif il Premio Orizzonti per il miglior attore al Festival del Cinema di Venezia 2018. Sembra passato un secolo.

A seguito dei sanguinosi attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 e della durissima risposta di Israele culminata nella strage di civili a Gaza, sembra fuori tempo parlare di pace e dialogo tra i due popoli. Eppure, questa pellicola coprodotta da Belgio, Francia, Israele e Lussemburgo, e interpretata da artisti di varie nazioni d’Europa e Medio Oriente, aveva utilizzato, a cinquant’anni dal conflitto del 1967, la metafora di una soap opera e il punto di vista di un giovane assistente di produzione palestinese abitante a Gerusalemme Ovest, per raccontare la vita sotto occupazione, la routine surreale delle perquisizioni quotidiane dell’esercito israeliano, la dignitosa povertà di un popolo senza Stato, ricco di talenti e identità, con il sogno di una vita finalmente normale.

La straordinaria leggerezza della storia immagina un militare di carriera intento a usare il suo potere per indirizzare la sceneggiatura di una serie tv verso il personaggio del comandante israeliano Yehuda a scapito di Marwan, eroe palestinese della storia. Leggibile la metafora sulla difficoltà di vivere la quotidianità e di lavorare facendo arte indipendente stando lontani dalle armi ma non dalle proprie bandiere. L’assistente Salam, promosso sceneggiatore da suo zio Bassam, finisce, come nel teatro goldoniano, con lo scontentare l’oppressivo israeliano Assi (Yaniv Biton) che lo blocca al check point, ma anche i colleghi di scrittura e di set palestinesi.

Eppure Salam impara dagli errori ogni giorno di più: capisce che se vuole riavere l’amore di Mariam (Maisa Ebd Elhadi) deve liberarsi, e lavorare duro; che l’ascolto tra persone, come tra popoli in lotta, è la chiave della concordia; capisce, mentre inventa sotterfugi per procurarsene, che il gusto semplice dell’hummus fatto in casa tiene lontano il ricordo sinistro di quello in scatola nei tempi più duri dell’occupazione. E anzi, mentre porta al militare Assi quella pietanza che tanto gli piace, comprende che la distanza tra Arabi ed Ebrei, al netto dei protocolli, dei documenti sequestrati e delle corazze, potrebbe essere colmata da poche cucchiaiate di crema di ceci. In fondo, se proprio le vicende della spia interpretata dalla diva Tala (Lubna Azabal) piacciono soprattutto alle donne d’Israele, e alla moglie di Assi più di tutte, forse qualche ponte potrebbe unire i due popoli…

Dunque, il messaggio che il film racchiude, ancora più significativo visto il numero di artisti israeliani coinvolti, è che il passato serve, anche quando ha lasciato cicatrici di guerra, ma solo se si vuole davvero evitare di ripeterlo in futuro. Ed amarsi, riconoscendosi reciprocamente tra identità e limiti, è l’unica chiave per non fare dell’ultima puntata di una soap lo sfogo di una vendetta attesa decadi. Purtroppo, raramente sono donne e uomini d’arte a cambiare la storia: a loro il compito, ammesso che mai possa accadere un giorno, di riparare una tela strappata e intrisa di sangue da chi, in nome di popoli ridotti al silenzio, dispone della vita e della morte di migliaia di esseri umani.

Il film ristabilisce dovunque armonie interrotte, chiudendo il cerchio in tutte le vite che attraversa. Per tanti palestinesi di oggi, diversamente che in pellicola, troppe scene non verranno mai girate, troppe vicende umane saranno stroncate appena dopo l’inizio, in una carneficina tragicamente reale.