La canzone pop Occidentali’s Karma di Francesco Gabbani è riuscita a riportare alla ribalta l’etologia, come tutto il dibattito che nei primi anni Sessanta era stato scatenato da quella disciplina. Con il suo La scimmia nuda, Desmond Morris aveva raggiunto la popolarità in tutto il mondo grazie alla sua disamina, in cui trattava l’uomo come un primate. Ma senza dubbio l’opera che in quegli anni impose nell’immaginario l’approccio etologico venne scritta da uno scrittore: Anthony Burgess. Il libro è Arancia meccanica, del 1962. Poi reso famoso del film di Kubrick.

Grazie a Sanremo, una canzone pop – Occidentali’s Karma di Francesco Gabbani – è riuscita a riportare alla ribalta l’etologia come tutto il dibattito che nei primi anni Sessanta era stato scatenato da quella disciplina. Il testo della canzone di Gabbani fa infatti riferimento a un saggio fondamentale come l’opera più nota di Desmond Morris, l’etologo inglese che prima del suo bestseller era stato curatore dei mammiferi allo zoo di Londra. Con il suo La scimmia nuda, Morris aveva raggiunto la popolarità in tutto il mondo grazie alla sua disamina, in cui trattava l’uomo come un primate, una scimmia senza peli, quindi nuda, e ne studiava conseguentemente il comportamento, anche nelle sue espressioni violente e aggressive. D’altra parte, lo studioso britannico non era il solo in quegli anni. L’etologia stava affermandosi come disciplina scientifica autonoma, grazie alle opere di Konrad Lorenz (L’aggressività e Il cosiddetto male) e Irenäus Eibl- Eibesfeldt (fondamentale il saggio Amore e odio, aggressività e socialità nell’uomo e negli animali) e grazie anche alla sociobiologia di E. O. Wilson e al “comportamentismo” di B. F. Skinner.

Una cosa è comunque certa: senza dubbio l’opera che in quegli anni impose nell’immaginario l’approccio etologico non venne scritta da uno scienziato ma da uno scrittore, da un fine letterato e critico letterario, di cui – anche se pochi lo ricorderanno – ricorre quest’anno il centenario della nascita: Anthony Burgess. Il libro è Arancia meccanica, del 1962, indiscutibilmente uno dei miti della letteratura mondiale di tutti i tempi, la cui fama è stata purtroppo scavalcata da quella del film che ne venne ricavato. Nel titolo originale A clockwork orange (“Un’arancia a orologeria”), il romanzo divenne infatti famoso solo nove anni dopo, grazie all’uscita dell’omonimo e celeberrimo film di Stanley Kubrick.

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Burgess, raccontando la genesi del suo capolavoro, partiva proprio da un esplicito riferimento alle teorie etologiche: «Il nostro mondo – è in pessima forma, come sostiene Skinner, a causa di vari problemi, come la guerra, l’inquinamento ambientale, la violenza civile, la crescita esplosiva della popolazione terrestre. L’approccio comportamentista all’essere umano lo vede muoversi verso tipologie differenziate di azione tramite stimoli avversivi e non- avversivi. La paura della sferza induceva lo schiavo a lavorare, la paura del licenziamento ancor oggi spinge lo schiavo retribuito a lavorare». Lo scrittore aveva sentito per la prima volta pronunciare l’espressione “sballato come un’arancia a orologeria” in un pub londinese. Si trattava di un’espressione tipica del vecchio slang cockney, un’allusione a una stranezza o anormalità così estrema da sovvertire la natura, giacché quale altra idea più bizzarra può esserci di quella di un’arancia con meccanismo a orologeria? L’immagine gli piacque per il fatto di implicare un ossimoro, un connubio forzoso di un organismo e di un meccanismo. «Ho scoperto – dirà – quanta risonanza potesse avere una tale immagine per la realtà del Novecento, già nel ’ 61, quando iniziai a scrivere il romanzo che doveva avere come sfondo proprio la violenza, il comportamento aggressivo e la delinquenza giovanile».

Il protagonista del romanzo si chiama Alex, ovvero “a- lex” fuori della legge e fuori del lessico, senza legge e senza linguaggio imposto. Alex, dopo tutti i delitti di cui si macchierà, col suo gruppo di amici – i Drughi – verrà arrestato e rieducato, ma alla fine sceglierà sempre la violenza, che risulta essere in lui un fattore innato più che condizionato dall’ambiente e dalle esperienze avute nell’infanzia. E i suoi amici effettuano rapine, mutilano, stuprano, vandalizzano, e alla fine arrivano a uccidere. Il giovane anti- eroe è arrestato e condannato, ma la condanna non è abbastanza. Il ministero degli Interni introduce una forma di terapia dell’avversione dal successo garantito, che in sole due settimane dovrebbe far piazza pulita per sempre di qualsiasi tendenza a delinquere. Che il tema fosse davvero importante per Burgess era motivato anche da una esperienza biografica personale che lo aveva segnato profondamente. La violenza era entrata nella sua vita lasciando una ferita aperta… Nato a Manchester il 25 febbraio 1917 da genitori cattolici, a John Anthony Wilson – che firmerà i suoi libri con il cognome di sua madre, Burgess – accadde che, mentre prestava servizio militare nell’esercito britannico ed era al fronte in Oriente, tre disertori americani, nel ’ 42, in una Londra squassata dai bombardamenti, si rendono protagonisti di un «crudele e inconsulto atto di violenza» ai danni di sua moglie. Rimasto colpito e traumatizzato, da allora Burgess si convinse che la violenza esiste e non è ignorandola che sparirà dal mondo, anzi. Bisogna parlarne, non solo per denunciarla, ma per cercare di capirne le ragioni e possibilmente estirparne le cause. Arancia meccanica, insomma, pubblicato nel ’ 62, era il frutto di queste sue meditazioni. Lo stile del romanzo allontana però qualsiasi forzatura didascalica e teorica, grazie all’invenzione del Nadsat, lo slang parlato da Alex e dai suoi Drughi, che mescola termini inglesi e russi e crea qualcosa di inedito e suggestivo.

Da tempo il romanzo viene riconosciuto come uno dei migliori della letteratura inglese del Novecento. E ad avviso della critica è un testo narrativo che riesce ad un tempo a rivelarsi uno studio sperimentale del problema dell’aggressività umana, della violenza criminale e di quella di Stato e delle responsabilità della società. Nello sfondo c’è sempre, come anche nelle altre opere di Burgess, l’azione del libero arbitrio, nel senso del ruolo e dello spazio della libertà umana in una società sempre più illiberale e centralizzata. Uno degli slogan del superstato di George Orwell in 1984, «La libertà è schiavitù», assumeva per Burgess un senso epocale, quello che il «dover scegliere un nostro personale modo di vita è un fardello intollerabile: il tormento della libera scelta – commentò lo scrittore – è il rumore delle catene della schiavitù».

D’altronde, nei numerosi romanzi di Burgess il tema centrale è quasi sempre quello dell’uomo minacciato dalla violenza, vittima di condizionamenti ideologici che ne limitano la libertà, oppresso dalla macchina dello Stato. Tra le sue opere: La dolce bestia, MF e la Trilogia malese  (tutte edite da Einaudi), Il seme inquieto, Il dottore è ammalato e Notizie dalla fine del mondo  (editi invece da Fanucci). Tra i capolavori della sua narrativa si ricorda la Trilogia malese  (1956), sugli ultimi giorni dell’Impero Britannico dell’Est (e ispirato dal suo soggiorno in Malesia), il romanzo 1984 e 1985, L’antica lama e il ciclo di romanzi comici di Enderby. Da ricordare anche Gli strumenti delle tenebre  (Earthly powers), un romanzo grandioso che lo impegnò per più di dieci anni, e fu tra i finalisti del Booker Prize dell’80. Nel 1983 vince la prima edizione del Premio Malaparte. Ricorrente negli scritti di Burgess il tema dell’uomo minacciato dalla violenza, l’uomo vittima di condizionamenti psicologici e ideologici che ne limitano la libertà, l’uomo oppresso dalla macchina-Stato. «Sono stato deriso e rimproverato – racconterà – per aver manifestato le mie paure nei confronti del potere dello Stato moderno, sia esso la Russia, o la Cina o quella che potremmo definire l’Anglo-America , di limitare la libertà dell’individuo. Eppure la letteratura ha messo più volte in guardia da tale potere, con libri come Il mondo nuovo di Aldous Huxley e 1984 di George Orwell». E sul senso della sua letteratura aggiungeva: «Se Arancia meccanica, così come 1984 di Orwell, rientra nel novero dei salutari moniti letterari (e cinematografici) contro l’indifferenza, la sensibilità morbosa e l’eccessiva fiducia nello Stato, allora quest’opera avrà avuto qualche valore».

Burgess, soprattutto nell’ultima fase della sua vita – scomparirà il 22 novembre 1993 – soggiornerà e lavorerà a lungo in Italia, in particolare a Roma. Qui oltre a scrivere – accanto a firme quali Eugène Ionesco e Raymond Aron – sulle pagine culturali del Giornale nuovo di Indro Montanelli (la cui casa editrice pubblicherà molti dei suoi libri), collaborerà con Franco Zeffirelli alla realizzazione del kolossal televisivo Gesù di Nazareth  (1976). Scrisse inoltre saggi e biografie su vari personaggi, tra i quali Hemingway e Joyce. E durante il suo soggiorno italiano ha tradotto dal romanesco all’inglese i sonetti del Belli. Ma in definitiva in tutta la sua opera emerge in primo piano la difesa dell’individuo e della sua libertà: «Forse si dovrebbe dire qualcosa in merito al conformismo della vita sociale – annotò – quando le nostre vite lavorative lasciano così poco spazio allo scabro individualismo: è doloroso essere un esperto di Spinoza alla sera e un ingranaggio al lavoro per il resto della giornata. E c’è qualcosa nel nostro essere sottomessi che fa sì che ci venga voglia di conformarci. Perfino chi si ribella contro il conformismo trova un conformismo tutto suo: come l’uniforme fatta di capelli lunghi, barbe, pantaloni di cotone, perline o amuleti, per esempio, e l’immutabile voglia di marijuana e di canzoni di protesta suonate con la chitarra».

In questo senso, Burgess si mostrò sempre orgoglioso della fede cattolica della sua famiglia, «originaria  del Lancashire, quella contea settentrionale che un tempo era una roccaforte cattolica: la Riforma protestante, che trasformò l’Inghilterra in quella che è oggi, non raggiunse mai il Lancashire». A suo dire, infatti, il cattolicesimo ha sempre rappresentato – anche per chi non ha fede ma vi è radicato culturalmente – una garanzia e una riserva di libertà: «Cristo è morto  per liberare gli uomini, ma il calvinismo stranamente  non sembra aver recepito questo. Le teocrazie create dai calvinisti sono sempre state caratterizzate da una  malinconia tetra come il brutto tempo. Si pensi all’Inghilterra di Cromwell, al Massachusetts di Cotton Mather, alla Ginevra dello stesso Calvino. Per loro lasciare che fossero gli uomini a scegliersi  i propri  destini fu un segno della perversione cattolica. Da qui la chiusura dei bordelli (che i paesi cattolici non chiusero); la messa al bando di frivolezze come le opere  teatrali o la letteratura leggera; la pena di morte per adulterio». Un antidoto, quello rappresentato nella cultura britannica – si pensi anche ad altri scrittori inglesi come Chesterton, Belloc o Tolkien – dallo spirito cattolico, che secondo Burgess conduce naturalmente verso una giusta diffidenza nei confronti dello statalismo e di tutti i modelli di conformismo imposti dallo Stato: «Purtroppo – spiegava – il  conformismo politico porta all’uniforme colorata, alla bandiera, allo slogan, alla museruola apposta alla libertà d’espressione, e tende ad agire sulla volontà a conformarsi in ambiti non-politici». Un suo pensiero spiega tutto: «Presumibilmente – sentenziò Burgess – non abbiamo il dovere di amare Beethoven o di detestare la Coca-Cola, ma è quanto meno credibile avere il dovere di diffidare dello Stato».