Tutte le fonti, a cominciare dalla Sala stampa vaticana, confermano che la due giorni a Kiev del cardinal Matteo Zuppi è una «missione di ascolto». Ma, anche al di là della difficoltà nel cercare di accendere un’interlocuzione che ha lasciato già sul campo la diplomazia di Parigi, Istanbul e Pechino, “ascolto” è la parola chiave. Per capire la personalità del sessantottenne metropolita di Bologna e capo dei vescovi italiani, e per intravedere in controluce la praticabile lunga via di quella che a tutti gli effetti sembra - anche al segretario di Stato Parolin - una mediazione ardua. Sul tavolo della quale, alla fine del percorso avviato oggi, se e quando sarà il momento, ci saranno tre scogli: rispetto del diritto internazionale e dei confini internazionalmente riconosciuti, e il cessate il fuoco. Papa Bergoglio ha annunciato che avrebbe scelto Zuppi per l’incarico solo il 20 maggio scorso.

La settimana prima, dopo quaranta minuti di colloquio in Vaticano del presidente ucraino Zelensky con il Papa, gli ucraini avevano fatto sapere di non vedere di buon occhio i tentativi della Santa Sede per via della “equidistanza” di Bergoglio nel conflitto: equidistanza solo presunta, perché varie volte all’Angelus il Papa aveva mostrato di distinguere chiaramente tra aggredito e aggressore. Ma in quel colloquio Zelensky ha chiesto aiuto per riportare in patria i 20mila bambini ucraini rapiti dalla Russia. Ed è proprio da lí che parte la missione: è da lí che comincia l’ascolto, è quello il filo che tesse il dialogo con gli ucraini.

Matteo Zuppi è considerato uno degli uomini più vicini a Papa Francesco, che lo ha designato presidente della Cei dopo averlo fatto vescovo da semplice parroco degli ultimi nella borgata romana di Torre Angela. Come fosse, se è consentita l’ipersemplificazione, un Bergoglio italiano. Ma non è la sintonia umana, intellettuale, politica e di esercizio del rispettivo magistero ad aver guidato la scelta. Zuppi è stato l’uomo- chiave di una trattativa davvero impossibile e che arrivò, trent’anni fa, alla pace: quella che in Mozambico mise fine a una estenuante e sanguinosa guerra civile. Che nessuno era riuscito a fermare, se non appunto la «formula italiana», come la definì l’allora segretario generale dell’Onu Boutros Ghali. Tutte le cronache raccontano che per raggiungere l’obiettivo a Zuppi e Andrea Riccardi - i due amici che avevano fondato la Comunità di Sant’Egidio- occorsero 27 mesi. Ma non andó esattamente così: «Per arrivare a quella firma sono serviti 6 anni: era indispensabile per conoscere le radici, l’humus che aveva giustificato e amplificato la guerra», ha raccontato Zuppi.

Nel tempo ponderosamente lento e avvolto dal riserbo con cui da sempre si muove la diplomazia vaticana, Zuppi non è certo stato individuato da Bergoglio il 20 maggio scorso. Ma molto prima, forse addirittura già pochi mesi dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Basta ricordare quanto sulla guerra in Ucraina disse, nell’autunno del 2022, lo stesso Zuppi: «L’unica vittoria è la pace, perché una vittoria solo militare porterebbe a una continua escalation, con il rischio di rendere il ricorso ad ordigni nucleari come un’ineluttabile conseguenza». Ma attenzione: «Non esiste pace senza giustizia, perché anche una pace senza giustizia porterebbe a una prosecuzione del conflitto». Quanto al percorso da intraprendere, «Henry Kissinger ha parlato (proprio riguardo alla guerra in Ucraina ndr) di “dialogo esplorativo”, e credo che esso non possa non coinvolgere, oltre le parti in campo, anche tutti gli altri attori, che debbono creare l’opportunità perché il dialogo venga avviato». Difficile che la missione vaticana sia partita senza quantomeno renderne edotte le principali diplomazie occidentali, a cominciare da quella statunitense.

Ascoltare e capire le cause profonde di un disagio, di un problema, di una semplice contrapposizione o finanche di un conflitto, è per Zuppi metodo quotidiano, ed è banale osservare che non sempre richiede anni e anni di approfondimenti. Il “metodo Zuppi” non ha avuto successo solo in Mozambico, e l’ “ascolto” è per Zuppi prassi quotidiana, nei 19 anni da parroco della basilica di Santa Maria in Trastevere (quella stessa nella quale venne ordinato diacono San Francesco d’Assisi) dove accorrevano ad ascoltare le sue omelie anche immigrati di altre confessioni o laicissimi chairman, come tra i proletari urbani di Torre Angela, o gli operai e la buona borghesia affluente del bolognese. Solo chi non lo conosce potrà derubricare la sua missione a Kiev come la gita di una bell’anima pacifista, o illudersi che si fermerà all’ “ascolto”. Zuppi, romano figlio di giornalista e nipote del cardinal Confalonieri, è dotato di un finissimo acume politico, e di una profonda conoscenza delle dinamiche di una delle società più complesse, qual è quella italiana.

Conosce bene e in qualche caso frequenta molti leader politici, ed è particolarmente a proprio agio (proprio come Papa Francesco) nel dialogo con i laici. Ha un senso politico pari solo a quello del suo più illustre predecessore, e il più capace di orientare la pubblica opinione cattolica: quello del cardinal Camillo Ruini. Considerando però la differenza abissale che può separare un ecclesiastico conciliare, e cioè chi fa regola di vita dei dettami del Concilio Vaticano II di Giovanni XXIII, da un ecclesiastico che nella lotta contro quel Concilio ha fatto, sin dal convegno Cei di Loreto del 1985, quasi il fulcro del suo agire. Il che significa anche che Zuppi non ha nulla del prelato arcigno, del cardinale di Curia aduso a ogni genere di compromessi: la capacità di mediazione (che è altra cosa dal compromesso) richiede anche senso dell’umorismo. E la capacità di sorridere. Come Sisifo, che mentre trascina dannandosi per il macigno che è condannato a trasportare in cima alla montagna, in cuor suo sorride, perché sa che poi c’è comunque la discesa.