«I o non ho mai perso la speranza. Mai. Sono soddisfatto solo di una cosa, che ora da qualche parte c’è scritto che non ho commesso il fatto. È stata una grande sofferenza. Mi sono chiesto tante volte perché, ma non ho mai trovato una risposta». Poco prima di essere assolto, Beniamino Zuncheddu era diventato fragile. Chi gli è stato vicino, riuscendo alla fine a dimostrare che non ha mai commesso quel triplice omicidio per il quale era stato condannato all’egastolo, passando 33 anni di vita in carcere, non lo aveva visto così in pericolo nemmeno quando sembrava destinato a passare l’intera esistenza dietro le sbarre.

Ora, mesi dopo la sentenza del processo di revisione che ne ha sancito l’innocenza passando alla storia come il caso di ingiusta detenzione peggiore della storia del Paese, ha ripreso peso. Arriva a Roma, alla libreria “Borri Book” di Termini, per la presentazione del libro “Io sono innocente” (DeAgostini), scritto assieme al suo avvocato Mauro Trogu, in compagnia della sorella Augusta, instancabile combattente che lo ha tirato fuori da lì, agganciando un giorno quel giovane avvocato al quale ha urlato in faccia: «Mio fratello è innocente».

Zuncheddu, polo blu e scarpe da tennis, gioca con gli occhiali, mentre tratta il microfono come un oggetto incandescente. Parla poco e non nasconde la sua timidezza, che traspare da quel sorriso abbozzato sul suo viso ogni volta che qualcuno gli si avvicina per stringergli la mano, per conoscerlo, per farsi fare un autografo. Una vera e propria rock star. Ma per il male che lo Stato gli ha fatto, al momento, non ha avuto alcun risarcimento. «Se non ci fosse stata mia sorella a quest’ora sarei sotto un ponte. O a rubare. Tanto ci sono stato 30 anni in galera, tanto vale che rubo, se mi va bene bene, se non mi va bene ritorno in carcere: un delinquente in più in Italia», dice al Dubbio sorridendo. È una pelle che non conosce, quella da protagonista, che non ha mai nemmeno considerato, dopo 33 anni in carcere da innocente. Mai una parola fuori posto, in quelle celle, mai uno scatto d’ira, nonostante la rabbia fosse un sentimento che era totalmente autorizzato a provare. Ma non lo ha fatto. L’importante era non chiedergli di confessare un reato mai commesso: quello lo avrebbe fatto di certo scattare. «Per usufruire della condizionale mi chiedevano un sicuro ravvedimento: ma di cosa mi dovevo ravvedere se non ho fatto niente? E se lo avessi fatto, come mi sarei sentito dopo, una volta libero? Poi ce l’hai addosso tutta la vita ed è una cosa che non mi appartiene. Perciò ho detto no». La sua speranza di tornare libero si basava su un’equazione semplice: gli innocenti non possono finire in carcere. «Pensavo che un giorno o l’altro sarei uscito, perché essendo innocente mi sembrava una cosa impossibile che i giudici non capissero. Tutti sapevano la mia storia, tutti dicevano che ero innocente, lo sapevano anche gli agenti, lo sapeva il Tribunale, lo sapevano tutti, però nessuno si muoveva. Ma ho sempre sperato che un giorno sarei uscito», racconta a margine della presentazione del libro. «Questo (Trogu, ndr) è il sesto avvocato che ho avuto. Stavo perdendo le speranze pure sugli avvocati. È durato tanto. Ho avuto pazienza e a furia di stringere i denti non ne ho più. Però intanto, mi sono detto, finché respiro, lotto». Ma le carceri sono un posto difficile in cui lottare, un posto difficile pure per respirare. «Si sta come le sardine. Lo sanno tutti, ma nessuno fa una legge per alleggerire quel peso. Perché non fanno uscire le persone a cui rimangono pochi anni? Quelli che hanno una famiglia, soprattutto? Perché non ci sono gli operatori, gli assistenti sociali, perché non date loro un lavoro? Le carceri sono come magazzini di esseri umani». Un deposito di corpi che non hanno dignità. Ma nonostante questo, nonostante una vita rubata, Zuncheddu non è arrabbiato con nessuno. «Nemmeno con chi mi ha accusato: anche lui è una vittima». Com’è possibile? «Se sbatto la testa al muro - sorride - sono io a farmi male. E dopo non cambia niente, vale per tutte le cose». Una volta fuori, spiega Zuncheddu, la cosa più bella è stata vedere tutto il suo paese, Burcei, dalla sua parte. A festeggiarlo. «Mi aspettavano tutti, non ci ho capito niente». E ora, cosa vorrebbe Beniamino Zuncheddu? «Curarmi. Una famiglia? Ormai è tardi per una famiglia».

«La giustizia non è stata clemente con Beniamino, che era l’uomo perfetto per il disegno che qualcuno aveva in testa», dice Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna, che ha avuto un ruolo di primo piano per tirare fuori Beniamino da quel buco nero che è il carcere. Vicino a loro c’è Gaia Tortora, la prima a portare il caso Zuncheddu in tv, che dice seria: «Questa storia è anche la mia». Quella di suo padre Enzo, l’uomo simbolo della malagiustizia in Italia. Una giustizia «che fa paura», continua Testa, e che non è stata clemente «neanche in questa sentenza, che ci ha lasciati tutti con l’amaro in bocca». Perché pur assolvendolo, i giudici di Roma non lo hanno dichiarato del tutto innocente. «Cosa c’è da rispettare in una sentenza che ci dice che Zuncheddu è un colpevole che l’ha fatta franca? - si chiede Testa - Dopo avergli rubato tutto, è stata l’ennesima cattiveria nei confronti di Beniamino». Un’occasione mancata, spiega Trogu, per prendere le distanze da ciò che nella giustizia non funziona. Una giustizia sulla quale bisognerebbe riflettere, che ha condannato velocemente e ci ha poi messo 33 anni a fare un passo indietro. «Quella sentenza l’ho letta con molta incredulità - spiega Trogu -. Non mi aspettavo grandi proclami a suo favore, ma neppure mi sarei mai aspettato un modo di raccontare quel processo così lontano da quello che avevo vissuto. Non è semplicemente l’aver valutato gli elementi raccolti in ottica accusatoria. La cosa più incredibile è che sono stati totalmente omessi i riferimenti delle prove a favore di Beniamino». E ciò nonostante ogni udienza riservasse un colpo di scena, mai contro di lui, sempre a favore. «Non c’è stato un solo testimone che abbia portato un elemento a carico di Beniamino aggiunge Trogu -. Tutto il dibattimento era univoco nel dimostrare che le indagini erano state condotte in maniera irregolare, che le prove erano false e di tutto questo, nella sentenza, non si parla. La sentenza non racconta quel processo. E per questo sono contento di aver scritto questo libro».

Io sono innocente è l’urlo lungo 33 anni di un uomo che deve ricominciare a vivere a 59 anni. «Un uomo che è rimasto uguale a quando aveva 26 anni», dice lui, col volto di un ragazzino. Ed è un titolo che rappresenta «la giusta risposta a quanto si legge in quella sentenza - conclude Trogu -, una negazione della realtà in nome di qualcosa che non voglio immaginare».