«Oggi, se vediamo che da una delle principali religioni del mondo escono secrezioni velenose, è ingenuo occuparsene solo quando qualche singolo e folle “cane sciolto” provoca una strage». Nel suo ultimo lavoro Nella mente di un terrorista lo psicoanalista e scrittore Luigi Zoja analizza l’isorgere del radicalismo jihadista, le sue radici storiche e piscologiche e le risposte più o meno autoritarie e paranoiche che ad esso oppone l’Occidente.

Anche l’Islam appartiene alla matrice culturale dell’Occidente, accomunato ad esso dall’assenza di significato, orizzonti e valori riconoscibili?

L’Islam è una delle tre grandi religioni monoteiste e il mondo islamico era parte del mondo europeo: ha dominato per secoli in Spagna, nel Sud dell’Italia e in alcune zone della penisola balcanica, dove è tuttora presente una maggioranza musulmana. Quello a cui mi sembra ci stiamo riferendo è, tuttavia, il portato della recente immigrazione, dovuta a motivi coloniali o economici.

Nelle società occidentali, gli strati più bassi della compagine sociale sono costituiti da masse minoritarie ma in crescita – in Francia come in Italia –, composte dagli individui più emozionabili, da un lato collegati all’Occidente da vincoli culturali di vecchia data ma dall’altro estranei a esso in misura maggiore rispetto ai cinesi, per lo più laici e gran lavoratori. Semplificando e volendo far corrispondere Islam e mondo arabo – che sono ovviamente due cose ben diverse –, la maggioranza dell’immigrazione islamica in Europa è araba – ad eccezione della Germania dove è turca – e si riflette in un certo tipo di società con precise identificazioni di genere e specifici stereotipi. Questa è una delle principali ragioni alla base di difficoltà di adattamento che non si rilevano, ad esempio, in Bosnia, in cui vivono musulmani europei, integrati da secoli. L’assenza di significato e l’alienazione sono fenomeni che sconvolgono l’intera Europa e colpiscono in maniera cospicua i giovani di famiglia islamica perché particolarmente fragili a livello psicologico: l’Islam offre loro una facile compensazione non disponibile altrove, ovvero l’accompagnamento di una religione le cui versioni più rigide sono legate a codici d’onore che noi abbiamo perduto. Con questo siamo destinati a convivere.

Che relazione intercorre tra gioventù e fanatismo? La carenza, all’interno della società contemporanea, di riti collettivi che demarchino il passaggio all’età adulta potrebbe costituire uno dei moventi inconsci dell’atto terroristico?

Assolutamente sì. Me ne sono occupato nel mio primo libro risalente agli anni Ottanta – Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza dove, sulla scorta della mia esperienza professionale maturata in una clinica di Zurigo, ho parlato di come la tossicodipendenza di massa – che allora stava infiammando l’Europa –, dal punto di vista junghiano fosse espressione di un inconscio collettivo e correlata alla mancanza di riti e, in particolare, dei riti di iniziazione che accompagnano l’ingresso nell’età adulta. In un certo senso, il fanatismo è uno dei fenomeni che sottendono alla manifesta- zione inconscia del bisogno di riempire quel vuoto lasciato dalla mancanza di riti. Un vuoto che viene mutuato in complesso di superiorità, i fondamentalisti si sentono moralmente superiori a noi. Credono di avere degli ideali. Dopo i fatti di Charlie Hebdo, richiamai l’attenzione su un aspetto singolare: una giornalista della redazione testimoniò che il terrorista che le aveva puntato il fucile, le disse: «Ma cosa credi? Noi non siamo senza onore come voi. Noi le donne non le uccidiamo».

Nel libro Nel nome di chi, Valeria Kadija Collina ha ammesso di non essere riuscita a realizzare fino in fondo quanto grave fosse stata la radicalizzazione del figlio Youssef Zaghba, morto sul London Bridge il 3 giugno dopo aver ucciso, insieme ad altri due attentatori, otto persone. Quale responsabilità riveste la costellazione familiare riguardo la mancata comprensione o, in alcuni casi, la vera e propria connivenza di possibili affiliati?

I background familiari contano sempre moltissimo. Elemento singolare è la matrice prevalentemente islamica: arabi e islamici giunti in Europa da bambini o ivi nati, figli di una prima generazione che ha faticato notevolmente e ha esaurito le energie per mantenere vive le proprie tradizioni e rispettare i costumi europei. È un compito quasi impossibile crescere un figlio che sia ad un tempo un buon musulmano e un buon cittadino occidentale, integrato ai livelli più bassi di una banlieue francese o di un sobborgo londinese.

Se la riconquista di Raqqa ha inferto un duro colpo all’Isis, i recenti attentati a Manhattan ci hanno fatti nuovamente sprofondare nella paranoia. A suo avviso, a che punto siamo nella nostra opera di contrasto all’Isis e, per contro, quali apici può toccare la paranoia in Occidente?

Quando ho scritto Paranoia abitavo a New York, proprio nel periodo dell’attentato alle Torri Gemelle. Più sull’ 11 settembre la mia attenzione si è incentrata sul giorno seguente, ovvero sul meccanismo di comunicazione e vicendevole contagio dei fondamentalismi. Abbiamo avuto Bush, ora abbiamo Trump: assistiamo a un sensibile peggioramento della situazione. Ad eccezione di alcune iniziative e certe esitazioni a suo tempo rimproverate a Obama, le politiche americane sono state spesso molto filo- paranoiche. La vittoria culturale è ben lontana, in quanto veniamo disprezzati da questi fondamentalisti anche per la nostra odierna povertà di valori. Bisogna adottare uno sguardo lungo: la battaglia deve diventare culturale, deve giocarsi sul campo dell’integrazione.

La propaganda terroristica, la ricerca del consenso e le rivendicazioni passano spesso dal web. Che legame può instaurarsi tra la virtualità e la fruizione generalmente solipsistica della Rete ed eventuali affiliazioni?

Temo che sia altissimo il contagio di talune emozioni su menti fragili favorita dal web. Il passaggio dalla televisione ai video che girano in rete – ancora più semplificati, ancora più violenti – segna il decadimento della comunicazione a livelli sempre più bassi. Fa parte della degenerazione dei mezzi di comunicazione – che veicolano immagini e rumori ma niente contenuti – che ad un certo punto coalesce con il messaggio fanatico e religioso. I potenziali affiliati sono dei gran consumatori e si autoeccitano con la droga mediatica, che ne accentua le fragilità; si tratta o di occidentali o di islamici che vivono in Europa e hanno integrato molto bene i mezzi tecnologici dell’Occidente. Sarà un caso che prima dell’avvento di questo tipo di tecnologia erano infinitamente più rare le conversioni al fondamentalismo islamico? La responsabilità di chi detiene i mezzi di comunicazione è piuttosto evidente e con il passar del tempo, se non si interviene, essi tenderanno a peggiorare. La tecnologia più performante diventerà sempre più economica mentre invece sarà sempre più difficile pubblicare analisi e articoli di ampio respiro e ricchi di contenuti.

Ritiene che la cultura possa alimentare, da ambo le parti, una certa qualità di autocritica e, in tal modo, condurre a una soddisfacente integrazione dell’ombra?

A mio avviso sì, ma sarà un processo molto lungo: Freud stesso sosteneva che “alla lunga non esiste un argomento ben presentato che non ottenga risultati”. Dobbiamo sempre tenere in considerazione ciò che chiamavo asimmetria del male o piano inclinato. La tecnica ha accentuato gli aspetti distruttivi, non certo quelli creativi. Ha implementato la mortalità con cui si può proiettare l’ombra: basta schiacciare un pulsante e attivare i comandi di un drone per neutralizzare il nemico. Come sosteneva Heidegger, il progresso tecnologico è sempre più veloce di quello morale. Credo di aver scritto in diverse occasioni – come nel libretto La morte del prossimo ( Einaudi, 2009) –, che la moralità, a differenza della tecnica, è purtroppo affidata all’educazione di ciascun individuo. Non è facile ma è tuttavia possibile lavorare con l’ombra: l’esempio classico è quello fornito dal Maestro Barenboim che in Israele ha riunito, in un’unica orchestra, musicisti israeliani e palestinesi. Nonostante non parlino la stessa lingua, attraverso la condivisione favorita dalla musica non sarebbero certo capaci di farsi del male a vicenda. Esistono possibilità di dialogo e bisogna ricordare che si riescono a odiare meno le persone vicine rispetto a quelle lontane, in quanto l’ombra viene proiettata sull’astrazione, sullo stereotipo del nemico.

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