Un'eroina degli anni 40 con il costume attillato e le grandi tette sarà la testimonial dell’Onu nella sua nuova campagna planetaria per i diritti delle donne. La guizzante silhouette di Wonder Woman porterà dunque il verbo dell’emancipazione in giro per il mondo in veste di “ambasciatrice onoraria” della parità. La missione partirà il prossimo 21 ottobre, data in cui è prevista una cerimonia ufficiale al Palazzo di vetro a cui parteciperà l’attrice Lynda Carter, la Wonder Woman della serie televisiva andata in onda negli Usa tra ‘75 e il ‘77.Una scelta in linea con il reclutamento di Red, l’uccellino arrabbiato di Angry Bird, personaggio culto per milioni di bambini, nominato ambasciatore per l’ambiente la scorsa primavera. Nel 1998 invece il testimonial onorario dell’amicizia tra i popoli fu Winnie the Pooh, il grazioso orsacchiotto ideato dallo scrittore britannico Alan Alexander Milne.Come giustamente ha fatto notare il New York Times, l’Onu può anche brandire la causa delle donne ai quattro venti e siamo tutti felici per lo slancio, ma ciò non toglie che il 90% di poltrone chiave nell’organizzazione sia occupato saldamente da uomini e, ancora una volta, al Palazzo di vetro è stato scelto un Segretario generale di sesso maschile, in questo caso nella persona del portoghese Antònio Guterres. «La vicenda è un po’ imbarazzante, visto che le Nazioni Unite sono tristemente agli ultimi posti nel mondo per il loro impegno sulla parità e l’Assemblea generale ha ignorato la candidatura di ben sette donne eleggendo Guterres per i prossimi cinque anni», commenta il quotidiano della Grande Mela.Eppoi quale messaggio veicola la scelta di una ragazza dotata di superpoteri come simbolo della lotta per l’emancipazione? Per ottenere i propri diritti bisogna quindi essere delle persone fuori dal comune, delle super-donne? Per le quasi quattro miliardi di donne “normali” il compito sembrerebbe così troppo arduo o comunque non alla loro portata. Quasi scoraggiante.Wonder Woman-Diana Prince nasce nel 1941 in piena Seconda Guerra mondiale dalla mente di William Moulton Marston, uno piscologo laureato a Harvard poi diventato fumettista, un uomo dalle idee molto liberal sui diritti femminili e sulla famiglia, tanto che lui stesso viveva un allegro e consensuale ménage à trois con la moglie avvocato Sadie Holloway e la sua ex studentessa Olive Byrne. Byrne era la figlia di Ethel Byrne, una celebre suffraggetta e una convinta militante per il diritto all’aborto.Come scrive lo storico Jill Lepore, autore di The secret history of Wonder Woman, «Marston si è ispirato alla figura giovane Byrne per tratteggiare le fattezze fisiche della sua eroina». All’epoca le avventure dei Batman Superman Capitan America furoreggiavano nei giornalini per ragazzi, ma Marston, assunto dalla Dc Comics all’inizio degli anni 40 lancia una suggestione più avanzata: e se creassimo un superoe donna dotato di forza, velocità e agilità sovrumane? Lo psicologo-fumettista colloca la sua creatura in una tribù di Amazzoni che vivono in un’isola chiamata Paradiso, Diana Prince è la figlia della regina Ippolita e ha della capacità fuori dal comune. Quando la giovane lascia l’isola si imbatte in Steve Trevor, pilota americano della Seconda Guerra mondiale e si unisce a lui per combattere contro i nazisti. «Per me il personaggio rappresenta il tipo di donna che dovrebbe dominare il mondo», dirà poi Marston. L’editore è entusiasta e la chiama “Wonder Woman”, decide che dovrà essere attraente come le pin up che in quegli anni titillavano l’immaginario del maschio americano e dei soldati al fronte: «Disegneremo una donna potente come Superman, sexy come Miss Fury, leggermente vestita come Sheena regina della giugla e patriottica come Capitan America». Ma dietro le sembianze di questa Afrodite guerriera del New deal, versione femminile della volontà di potenza dell’America, il personaggio incarna la volontà di essere libere e uguali di milioni di donne americane e non solo.In una storia del ‘43, dal titolo “Battaglia per la femminilità” la nostra eroina si scontra addirittura con il dio Marte preoccupato che le donne possano acquisire potere paretcipando alla guerra contro il Terzo Reich accanto agli uomini: «Così sfuggiranno del tutto al dominio maschile», tuona Marte. Wonder Woman però non ci sta e convince addirittura la moglie del dio ad abbandonare il suo opprimente consorte dicendole: «Sii forte, guadagnmati la vita, liberati, unisciti a noi e battiti per il tuo Paese».Negli prima metà degli anni 70 diventa un’esplicita icona del femminismo occupando persino la copertina del primo numero di Ms, celebre rivista per i diritti femminili: «I suoi sforzi e le sue battaglie per salvare e affrancare le donne sono un esempio eccellente per tutte noi», scriverà la fondatrice Gloria Steneim. Ma il movimento femminista è diviso; secondo alcune, come il gruppo Redstockigns (Calze rosse) di New York, Wonder Woman rappresenta «un’idea individualista che nega la necessità di un movimento per i diritti civili e sottintende che le donne non riescono a liberarsi per colpa loro». L’interpretazione delle Redstockings, forse un po’ eccessiva e ideologica, coglie però un punto centrale, lo stesso che stride da morire nella campagna lanciata dall’Onu: l’emancipazione come percorso individuale affidato unicamente alla propria forza e alla propria volontà rappresentato da una super-donna in costume che salva il mondo con i suoi superpoteri è una bella favola, ma anche una metafora scorretta, buona per l’America puritana e patriarcale di 75 anni fa, molto meno per ispirare l’emancipazione delle donne nel terzo millennio.