Novantacinque anni fa, e precisamente il 18 agosto del 1920, le suffragette vinsero la loro battaglia, durata mezzo secolo, e le donne americane ottennero il diritto di voto. Fu approvato quel giorno il famoso diciannovesimo emendamento alla Costituzione che modificava il suffragio universale. Da quel momento le donne furono chiamate per 21 volte alle urne per eleggere il Presidente degli Stati uniti, e scelsero 16 presidenti (alcuni per un mandato, alcuni per due), dal repubblicano Warren Harding nel 1921 a Barack Obama nel 2008 e poi nel 2012. Tutti maschi. Tutti bianchi tranne l’ultimo. E per ventuno volte scelsero tra due maschi.La scorsa notte, nel corso di una grande festa a Brooklyn, Hillary Rodham Clinton ha annunciato che per la prima volta, il 7 novembre del 2016, le donne avranno la possibilità di eleggere una di loro, una donna a capo degli Sati Uniti, e dunque a capo del mondo. L’avvocata Hillary Clinton, aggiudicandosi, un po’ a sorpresa e con largo margine, le primarie in California, ha conquistato un numero di delegati ampiamente sufficiente a garantirle, tra poco più di un mese, la nomination a candidata democratica per la Presidenza degli Stati Uniti. E questo non era mai successo, in tutta la storia. Ed è un avvenimento che modifica l’immaginario politico, non solo in America, così come fu otto anni fa, quando per la prima volta un nero, un afroamericano vinse la nomination.Alla conclusione della lunga tornata delle primarie manca ora soltanto una tappa, che però sarà una pura formalità: la città di Washington (che non è uno Sato ma è un distretto a statuto speciale) dove la settimana prossima saranno assegnati appena 45 delegati alla Convention. Hillary Clinton, con la vittoria di ieri (non solo in California, con il 56 per cento, ma anche in New Messico, col 52 per cento, in Sud Dakota, con il 51 per cento, e in New Jersey, con un largo 63 per cento) si è aggiudicata 2.755 delegati, mentre Sanders (che ieri ha vinto le primarie in due Stati poco popolosi, come il Montana, e il Sud Dakota, tutti e due col 51 per cento) è a 1852 delegati. La maggioranza necessaria per ottenere la nomination è di 2383 delegati, quindi Hillary, con un margine di oltre 400 delegati, è al sicuro. E però...Però Bernie Sanders non molla. Nonostante la nettezza delle cifre e nonostante le aperture di Hillary. Ieri ha parlato a Snta Monica (Los Angeles) e ha detto che combatterà fino all’ultimo, e combatterà ancora durante la Convenzione democratica (che si terrà a Filadelfia dal 21 al 28 luglio). Ha parlato a lungo e ha quasi ignorato Hillary. L’ha nominata solo una volta dopo 15 minuti di discorso, poi silenzio.Hillary, invece, nel suo trionfale speech di New York ha parlato molto e bene di Sanders. Ha detto: «Voglio congratularmi con il senatore Sanders per la sua straordinaria campagna. Ha trascorso la sua lunga carriera nelle istituzioni lottando per cause e principi progressisti e ha entusiasmato milioni di elettori, soprattutto i giovani. E voglio che non ci siano equivoci. Il senatore Sanders, la sua campagna, e il vigoroso dibattito che abbiamo avuto su come risollevare i redditi, ridurre le diseguaglianze, aumentare la mobilità verso l’alto, sono stati molto positivi per il partito democratico e per l’America».Si capisce facilmente che ora Hillary è disposta a concedere molto per avere Sanders dalla sua parte. Si tratta di capire cosa intende fare il senatore “socialista”. E questa domanda rimbalza dalle pagine di tutti i giornali americani. Se lo chiede sul New York Times Michael Barbaro: «Sarà generoso o petulante? Mollerà o darà battaglia? Uscirà di scena da protagonista, e aiuterà Hillary a battere Trump, o si ritaglierà la figura del vecchio scontroso»?Sanders dice di voler portare la lotta dentro la Convention. La sua idea è quella di condizionare a sinistra il programma politico della Clinton.Hillary dovrà scegliere. Rivolgersi a sinistra, cercare voti nell’elettorato di Sanders, e magari anche offrirgli la vicepresidenza, o invece compiere la scelta opposta e rivolgersi ai moderati, e in particolare a quel pezzo consistente di elettorato repubblicano, legato soprattutto ai Bush, ma non solo, che non sopporta Donald Trump, e chiaramente fa il tifo per lei, e magari potrebbe gradire persino un colpo a sorpresa, come potrebbe essere quello di offrire la vicepresidenza a un repubblicano dissidente?C’è un mese di tempo, o poco più, per decidere. La Convention di Filadelfia non sarà una passeggiata. Ci sarà lotta politica. Bisogna dire che queste primarie americane ci hanno fatto vedere come negli Stati Uniti la politica esiste ancora. E’ molto diversa da quella italiana, e in genere da quella europea. Le posizioni dei contendenti sono chiarissime, molto distinte. Nessuno ha votato per Hlilary o per Sanders senza conoscere le differenze che ci sono tra loro. E nessuno voterà in novembre per Hillary o per Trump a occhi chiusi. La destra americana è molto lontana dai democratici e viceversa. La visione dei repubblicani è chiarissima e riassumibile con la vecchia formula: meno stato più mercato. I democratici invece puntano tutto sul welfare e sul riequilibrio delle differenze sociali. E la battaglia tra queste due visioni, contrapposte, della vita pubblica e della società, si esprime coi più tradizionali strumenti della politica. Per esempio il comizio, per esempio il manifesto sui muri, l’assemblea di caseggiato, come si diceva da noi una volta. Conta ancora, nella battaglia politica, l’abilità retorica.Hillary l’altra notte ha dimostrato di nuovo di averne di abilità nel parlare. Anche se è antipatica, lei trascina, ha carisma. Ha intrecciato le mani, le ha portate sul cuore, e ha raccontato che la sua lunga camminata era iniziata idealmente un secolo e mezzo fa, nel luglio del 1848, quando le suffragette si riunirono tutte, per la prima volta, a Seneca Falls, un piccolo centro al nord nello Stato di New York, e giurarono che avrebbero conquistato il diritto di voto. C’era ancora la schiavitù, negli Stati del Sud, ma le donne iniziarono la lunga marcia. Obiettivo Casa Bianca.