Magari a sua insaputa, il segretario della Cgil Maurizio Landini con un semplice interrogativo ha scritto un trattato sul governo. O meglio, sul non governo. Neppure fosse John Locke.

Non appena uscito dal Viminale dopo il megaincontro della scorsa settimana con un Matteo Salvini uno e trino – vicepresidente del Consiglio, ministro dell’Interno e leader della Lega – si è domandato: ma il governo è uno o ce n’è più d’uno? Un interrogativo retorico. Perché ne abbiamo a bizzeffe.

C’è il governo Conte, il governo Salvini, il governo Di Maio, a volte perfino i governi Tria e Moavero, che compaiono per subito scomparire come i fiumicelli carsici. E, su tutti, veglia dall’alto del Colle Sergio Mattarella.

Ma il troppo stroppia. Così la somma di tanti governi fanno un non governo. Landini ha messo il dito sulla piaga. Fuor di metafora, sul rovescio del diritto costituzionale. Sulle anomalie costituzionali di questo ( non) governo. Qui e ora. Come al solito, il difetto sta nel manico.

Un anno fa ci ritrovammo sul gobbo un presidente del Consiglio per caso. E non per colpa sua. Non è un mistero che Luigi Di Maio, forte dei suffragi riportati alle elezioni politiche, non chiedeva di meglio che salire le scale di Palazzo Chigi e diventarne l’inquilino. Ma questa sua legittima aspirazione si è scontrata con il diniego di Matteo Salvini.

Così tra i due litiganti a godere – si fa per dire – fu il terzo incomodo: Giuseppe Conte, uscito dal cilindro dell’attuale guardasigilli Alfonso Bonafede. Ben lieto di aver fatto a suo tempo l’assistente volontario, senza il becco di un quattrino, del cattedratico di Diritto civile dell’Ateneo fiorentino.

Da noi i presidenti del Consiglio sono stati nei confronti dei ministri dei meri primi inter pares, condizionati ai tempi della Prima Repubblica da Sua Maestà la Partitocrazia. Un tiranno senza volto, a detta di Giuseppe Maranini, perché se tutti sono responsabili in realtà non lo è più nessuno.

Sotto la Seconda Repubblica, nata grazie al sistema elettorale battezzato da Giovanni Sartori Mattarellum in omaggio al suo artefice, hanno poi accumulato potere su potere. Con l’illusione di essere eletti direttamente dal popolo.

Basti pensare al potere detenuto da Silvio Berlusconi durante i suoi ministeri. Adesso, la svolta. Fin dal suo insediamento, Conte ci è apparso il vice dei suoi vicepresidenti del Consiglio. Se non un vero e proprio re Travicello, poco ci manca. Per mesi e mesi, al diritto della forza dei due consoli non è riuscito a contrapporre neppure una parvenza di forza del diritto. Proprio lui, maestro del giure.

Poi, a poco a poco, Conte è riuscito a ritagliarsi uno spazio. Anzi, sono stati i diarchi a spalancargli un’autostrada. A condizione che la percorresse fuori dai confini nazionali. Perché, una volta fatta la faccia feroce con l’Unione europea, costoro hanno sempre dato l’impressione di non sapere da che parte rifarsi.

In effetti Conte – tra un baciamano e un altro a dame europee d’alto rango, tra un francese, un inglese e un tedesco fluenti, con indosso vestiti di eccellente fattura sartoriale con tanto di pochette – ha fatto la sua bella figura. E qualche successo, siamo giusti, lo ha strappato. Anche grazie ai suggerimenti del Capo dello Stato.

Ma ora che Di Maio ci appare un perdente di successo, sempre lì a Palazzo Chigi ma in condominio, e Salvini ha le sue gatte da pelare, Conte alza la voce. E si appella all’articolo 95 della Costituzione. Che dice, abbaiando alla luna: il presidente del Consiglio dirige la politica generale del governo e ne è responsabile.

Ecco che a turno ora governa l’uno e ora l’altro personaggio politico. In perenne baruffa tra loro. Ma, come si diceva in apertura, i tanti governi in competizione si annullano a vicenda. Sommati insieme, producono un non governo. Danno luogo a una preoccupante paralisi progressiva. E per il Belpaese torna ad aggirarsi il fantasma di Pirandello. Uno, nessuno e centomila. Fino a quando?