Lo stallo che precede l’addio è diventato così lacerante che nessuno dei partiti fanatici antieuropei, che facevano il tifo per la Brexit, ha più cavalcato la belva. A guardarlo, come la rigiri, deal o non deal, accordo o no con la Ue per concordare i termini dell’uscita di Londra dai confini europei, barricaderi e non sono tutti già sconfitti.

Ma la cosa più lacerante è che le regole di una delle democrazie più antiche ed efficienti, e i meccanismi di partecipazione popolare, diretta o indiretta che sia, non stanno più funzionando: il referendum sconfessato, un Parlamento paralizzato, un governo impotente, i conservatori e laburisti in ordine sparso, istituzioni incapaci di trovare un equilibrio tra spinte centripede pericolosissime.

La Grande Inghilterra, quella che quando il mare della Manica era mosso considerava il “continente isolato”, adesso sperimenta l’opposto, essere isolata dal Continente. E non è più un problema di costi, di quanto ci si rimette a lasciare la Ue, quali danni all’economia del regno e delle famiglie, quale futuro economico- finanziario si materializzerà.

Il problema non è se la May si dimetterà, se si dovrà andare a nuove elezioni, se allungare lo stallo promettendo alla Ue un nuovo referendum, consultivo o confermativo, oppure uscire senza nessun accordo.

Il problema è quello di una democrazia inceppata che non garantisce più risposte tempestive ai cittadini, in tempi in cui tutto galoppa alla velocità del suono e chi arriva dopo è già out. Perdipiù nell’incubo della recessione o della crescita zero.

Perché tutto questo sia successo hanno provato in tanti ad analizzarlo.

Hanno infilato il termometro nella pancia della campagna inglese e delle periferie lontane da Londra per scoprire perché tanti inglesi si sentono ancora a cavallo dell’Impero, delle colonie, di quella grandezza che aveva dominato mezzo mondo e nutrito un’ipertrofia dell’io britannica, quella che considerava i cugini americani come dei burini ripuliti.

Sembra incredibile, ma questo sentimento alimentato dalla campagna dello schieramento antieuropeo, dai populismi più diversi ma urticanti, e anche naturalmente dalle tante pecche di Bruxelles, ha dato la vittoria referendaria a chi credeva che uno splendido isolamento sarebbe stato un modo per riaffermare la potenza della Grande Inghilterra, protagonista mondiale più forte che mai e che lo spirito british li avrebbe salvati.

Nella grandi città, e soprattutto a Londra, come sappiamo, certe nostalgie sono state cancellate dal pragmatismo realista del no alla Brexit, conti alla mano, dove il Remain, il restiamo, era nutrito dagli interessi economici della City, delle aziende, dei mercati e da ragionamenti geopolitici più avanzati.

E dai cittadini che hanno una mente più aperta dei campagnoli, spesso. Adesso il Cabinet Secretary del governo, Sedwill, cerca di far capire al popolo ma soprattutto ai deputati quante lacrime e sangue siano dietro l’angolo dell’uscita tout court: prezzi dei prodotti alimentari + 10%, tilt delle aziende che lavorano e commerciano con l’Unione europea, e non sono poche, il che significherà recessione e deprezzamento della sterlina, addio al mercato unico, all’unione doganale e a 750 accordi internazionali cancellati, più, tanto per gradire, un sistema giudiziario sotto pressione e come gestire i 3 milioni e 600 mila cittadini europei che vivono o risiedono nel Regno Unito.

Tra cui 600 mila italiani. Anche senza un accordo bisognerà comunque mettere mano ad un Trattato ad hoc per disciplinare questo problema degli “stranieri”.

Il Pil inglese, secondo il presidente del Parlamento europea Tajani, perderà il 10 per cento del Prodotto interno lordo, che è una cifra enorme se pensiamo che qui si litiga sugli 0 virgola immaginando il default.

Naturalmente anche le economie europee ci perderanno, ed è questo che preoccupa tutti, perchè non ha proprio più senso di dare retta ai celoduristi ora che le economie occidentali arrancano in attesa di una ripresa che non si vede.

Il paradosso è che la lunga riunione della May con i suoi ministri somiglia sempre più ad una toppa ad una veste lacerata, che certo non basterà. Michel Barnier, il negoziatore della Ue, ha messo il dito sulla piaga: «E’ sorprendente e deludente che la Camera dei Comuni continui a non avere una maggioranza positiva, solo maggioranze negative.

Non è così che organizzeremo un’uscita ordinata». Macron, presidente francese, s’è stufato di aspettare: la Ue non può restare ostaggio della non scelta inglese, resterà un alleato importante ma ognuno sulla sua strada. Barnier le tenta tutte: «Se il Regno Unito vuole ancora lasciare l’Ue in modo ordinato, l’accordo di dicembre resta l’unico modo.

Se i Comuni non votano a favore nei prossimi giorni, restano solo due opzioni: un ’ no deal’ o un posticipo più lungo dell’uscita». Una proroga lunga della Brexit «comporterà rischi significativi per l’Unione e perciò Londra dovrà dare ai 27 «una giustificazione forte».

Tra le possibili motivazioni «un nuovo referendum, elezioni anticipate o la necessità per Westminster di studiare di nuovo nel dettaglio la dichiarazione politica».

E’ dal giugno del 2016 che si va avanti con la telenovela. Cioé quasi tre anni. Un’era geologica per la politica di questo millennio. La cronaca regala oggi altreotto ore di meeting dei ministri con la May, e si aspetta l’ultima proposta per una Brexit meno amara.

Forse un tentativo per allungare il brodo. E per non rischiare fughe di notizie, ai ministri è stato tolto il cellulare.