È ufficiale: la giustizia riapre il 30 giugno. Salvo ripensamenti, o addirittura tentativi di anticipare i tempi, da parte del governo. Che oggi però ha ufficialmente dato parere favorevole a un emendamento con cui Fratelli d’Italia fissa quella data. In calce all’iniziativa, proposta durante l’esame del decreto Intercettazioni, c’è la firma di Alberto Balboni, senatore del partito di Giorgia Meloni. Il via libera è arrivato da Vittorio Ferraresi, sottosegretario alla Giustizia. Si può dire che la partita è chiusa, insomma. Ma per dimostrarlo, è necessaria l’assistenza di un avvocato. E l’avvocato in questione è proprio Alberto Balboni, del Foro di Ferrara. È senatore, alla quarta legislatura, di quelli che potrebbero scrivere la teoria e la tecnica dell’attività parlamentare, ma è pur sempre innanzitutto un avvocato. «Si metta nei panni di un presidente di Tribunale», dice il parlamentare di Fratelli d’Italia al Dubbio, «si trova davanti l’articolo 83 del Cura Italia, giusto? Vi trova scritto che dipende tutto da lui. Tutto. Riaprire o no le aule di giustizia, consentire lo svolgimento delle udienze o rinviarle, adottare cautele o riprendere l’attività. Lei che farebbe, al suo posto?». Loro, i magistrati, ricorda Balboni, «hanno chiuso tutto. Si son detti: “E chi me lo fa fare di rischiare? Come sono perseguibili i titolari delle aziende con casi di contagio da covid, così sarei perseguibile io”. Perciò hanno bloccato l'attività nei tribunali. L’errore, madornale, commesso dal governo», osserva ancora Balboni, «è stato scaricare su di loro la responsabilità». Ecco, in poche parole, perché si è paralizzata la giustizia. Ci voleva un avvocato, prima che senatore, per trovare la soluzione: un emendamento piccolo piccolo, di mezza riga, al decreto Intercettazioni, in discussione a Palazzo Madama, nella commissione Giustizia di cui Balboni fa parte: “Al comma 1, sopprimere la lettera i)”. Tutto qui? «Tutto qui». All’articolo 3, comma 1, lettera i) del mitologico decreto Intercettazioni dello scorso 30 aprile (quello che in realtà ha soprattutto limitato le udienze da remoto) c’è scritto che la fine della fase 2 della giustizia è procrastinata dal 30 giugno al 31 luglio. «Significa essere rimandati a settembre», ricorda Balboni, «visto che ad agosto c’è la sospensione feriale». Ciò detto, e dato atto al senatore di FdI della sua lucida prontezza di riflessi, va anche ricordato che il contenuto della norma, semplicissimo, era stato condiviso in anticipo, ieri mattina, dal sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, del Movimento 5 Stelle. A “Uno Mattina”, su Rai 1, Ferraresi aveva ricordato l’incontro di venerdì scorso a via Arenula fra il guardasigilli Alfonso Bonafede, il Cnf, l’Ocf, l’Aiga, l’Ucpi e l’Unione Camere civili: «Dopo quel confronto con l’avvocatura e con l’Anm, si è convenuto che la situazione consente di tornare a una attività regolare. E così, all’interno dei provvedimenti sulla giustizia all’esame del Parlamento, sarà prevista la ripresa dal 30 giugno». Ferraresi aveva ben chiaro che di lì a poco avrebbe dato, a nome dell’intero governo, parere favorevole all’emendamento Balboni, sottoscritto anche da altri due senatori di FdI, Ciriani e Rauti. Non solo: nella seduta dell’organismo di Palazzo Madama presieduto dal leghista Andrea Ostellari, si esprimono a favore della proposta anche i due relatori: Franco Mirabelli, capogruppo dem nella commissione, e la 5 Stelle Angela Piarulli. Più esplicito e ufficiale di così, il via libera non potrebbe essere. Il decreto scadrebbe il 29 giugno, quindi sulla data non sussistono equivoci. «Devo ammettere», dice ancora Balboni, «che la scelta del governo mi ha un po’ colto di sorpresa. Non credevo che avrebbero dato l’ok». In realtà proprio il Cnf e l’Ocf avevano prefigurato a Bonafede, nell’incontro di venerdì, una opzione tranchant come quella poi proposta da FdI. Il ministro non l’aveva esclusa. Aveva comunque prospettato un intervento in grado di lasciare ai capi degli uffici giudiziari il potere di fermare l’attività solo qualora l’Autorità sanitaria avesse segnalato nuovi focolai. Ora però l’avvocatura chiederà di rendere immediatamente residuale il ricorso allo smart working per il personale amministrativo (due giorni orsono lo ha fatto con una dettagliata lettera al guardasigilli anche l’Ordine forense di Torino) e di anticipare la data del 30 con l’unica soluzione possibile: un decreto. Anche perché, come ricorda il presidente dell’Ami, l’Associazione avvocati matrimonialisti, Ettore Grassani, «la paralisi della giustizia come conseguenza della pandemia sta comprimendo in maniera pericolosa i diritti di migliaia di famiglie che attendono i provvedimenti di separazione». Si calcola, spiega Grassani, «che ci siano almeno 25mila coppie che avevano depositato il ricorso poco prima del lockdown e che sono attualmente ancora sotto lo stesso tetto. Parliamo di separazioni giudiziali e consensuali. Questo alimenta le violenze intrafamiliari. Un sistema lento diventa egli stesso complice della violenza». Prima si riapre e meglio è. Ma almeno, ora è certo che non si andrà oltre il 30 giugno.