Una distesa di tende è stata eretta davanti alla Knesset, a Gerusalemme. Gli oppositori di Benjamin Netanyahu non demordono e chiedono a gran voce le dimissioni del primo ministro israeliano. Il premier che, a detta di chi lo contesta, sta portando Israele in un tunnel senza uscita.

Già, perché le operazioni sulla Striscia di Gaza stanno avvenendo senza alcuna previsione di una seconda fase: quella di eventuali trattative con chi dovrà assumere la guida politica dei territori ridotti ad un cumulo di macerie e in un recinto di persone ridotte alla fame e alla disperazione.

Le proteste di piazza sono iniziate la domenica di Pasqua. Mentre a Gerusalemme poche persone potevano assistere, nella Basilica del Santo Sepolcro, alla funzione religiosa in presenza del patriarca latino, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, a Tel Aviv, Beer Sheva, Haifa e nella stessa Gerusalemme decine di migliaia di persone scendevano in piazza per chiedere a Netanyahu - per l’ennesima volta – di fare un passo indietro e lasciare il governo di Israele. Le manifestazioni di ieri sono state le più imponenti dopo quelle contro la riforma della giustizia susseguitesi in momenti diversi del 2023.

Migliaia di persone si sono radunate nella piazza antistante al Museo d’Arte, a Tel Aviv. Lo stesso luogo in cui a lungo si sono accampati i parenti degli ostaggi del 7 ottobre. Grossi assembramenti all’ingresso di Kirya, area in cui si trova una delle sedi più importanti dell’esercito e dove sono presenti i palazzi governativi. Blocchi stradali a Gerusalemme. L’autostrada Begin è stata invasa dai manifestanti che hanno acceso dei falò sulle carreggiate. Per ripristinare la circolazione la polizia ha utilizzato i cannoni ad acqua. La presenza di centinaia di tende davanti alla sede del Parlamento dimostra che le proteste proseguiranno fino a quando non ci saranno risposte in merito ai negoziati per la liberazione degli ostaggi a seguito delle stragi di sei mesi fa.

Ma ad animare le contestazioni di piazza anche un altro tema politico e giuridico al tempo stesso, che agita, forse, più di tutti in questi giorni il governo Netanyahu. Riguarda la fine dei sussidi governativi, stabilita da una sentenza della Corte Suprema, per molti ebrei ultraortodossi che non prestano servizio nell’esercito. Dunque, decine di migliaia di religiosi dovrebbero indossare l’uniforme. La fine dell’esenzione dalla leva, contenuta nella decisione della Corte Suprema, potrebbe destabilizzare pesantemente l’esecutivo, dato che il blocco dei partiti ultraortodossi è un pilastro importante dell’esecutivo di unità nazionale, costituito all’indomani degli eccidi del 7 ottobre 2023.

Se da un lato i partiti conservatori ed estremisti del governo Netanyahu insistono per l’esenzione dalla leva, sorvolando sulla sentenza di giovedì scorso della Corte Suprema, gli esponenti moderati del Gabinetto di guerra (tutti ex militari) chiedono che si realizzi una parità di trattamento per i cittadini e che tutti nella società israeliana siano equamente impegnati nel dare un contributo sulla Striscia di Gaza per la definitiva sconfitta di Hamas. In un sondaggio dell’«Israel democracy institute», il 70% degli ebrei israeliani è a favore della fine delle esenzioni militari generalizzate. Segno, evidentemente, che in merito alla guerra contro Hamas ognuno deve dare un contributo, senza distinzioni.

Aryeh Deri, leader dello Shas, partito ultraortodosso della coalizione di governo, in post su X ha detto che «la sentenza della Suprema Corte distrugge le basi dell'identità ebraica dello Stato di Israele». Ha inoltre evidenziato che con la loro decisione i giudici intendono «recidere ogni ramo dell'esistenza del popolo ebraico». «Non è ancora nato nessuno – ha aggiunto sprezzante Deri - che abbia cercato di offuscare l’identità ebraica del popolo d’Israele. Il popolo di Israele è impegnato in una guerra di esistenza su più fronti e i giudici della Suprema Corte hanno fatto di tutto per creare anche loro una guerra fratricida».

I problemi per Bibi Netanyahu non mancano neppure sul versante delle relazioni con l’alleato per antonomasia: gli Stati Uniti. Qualcosa sembra essersi incrinato irrimediabilmente (e pericolosamente). L’approccio verso la guerra sulla Striscia di Gaza vede le due parti sempre più distanti. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, sta tentando con fatica di realizzare la cosiddetta “architettura regionale” in Medio Oriente. Secondo l’esponente dell’amministrazione Biden, ormai a Gaza si patisce una “fame catastrofica”: «il 100% della popolazione vive in condizioni di insicurezza alimentare acuta» ed «è la prima volta che un’intera popolazione viene classificata in questo modo». Da qui l’esigenza di attuare un efficace piano di distribuzione degli aiuti.

Inoltre, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha rinfacciato al primo ministro israeliano di non avere una strategia globale con obiettivi chiari nella campagna militare sulla Striscia di Gaza per sconfiggere Hamas. «Netanyahu sta danneggiando Israele più che aiutarlo», ha commentato Biden. L’amministrazione americana, come è stato evidenziato da due autorevoli studiosi dell’Inss (The Institute for national security studies), Eldad Shavit e Chuck Freilick, ha illustrato a Netanyahu quanto dovrebbe realizzarsi nel periodo post-Hamas. Consiste in una fase «che prevede un progressivo periodo di pace e una sicurezza maggiore e più stabile per Israele, attraverso una più profonda integrazione regionale, compresa la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita e la realizzazione di una soluzione a due Stati».

Le profonde divergenze tra Stati Uniti e Israele riguardano pure la costruzione di un molo americano a Gaza per far giungere gli aiuti umanitari. Un progetto che non convince affatto Gerusalemme. La realizzazione dell’infrastruttura dovrebbe avvenire in circa due mesi e impegnerà migliaia di persone tra militari e civili statunitensi. «Una delle principali preoccupazioni – sostengono Eldad Shavit e Chuck Freilick dell’Inss - è che l’opera potrebbe limitare la libertà di manovra dell’Israel defense forces, a terra, in aria e in mare, e ostacolare i suoi piani per la continuazione della guerra. Inoltre, il molo potrebbe diventare una fonte di attrito tra le forze americane e israeliane, con la possibilità di un aumento delle tensioni tra i due Paesi, soprattutto se Hamas tentasse di istigare le ostilità, ad esempio, provocando intenzionalmente incidenti di fuoco amico».