Lo scontro politico produce un effetto alone che impedisce di penetrare fino in fondo la questione. Che è delicatissima perchè riguarda le tasche di tutti gli italiani. La questione, lo sanno tutti, è la data delle elezioni. L’effetto alone è il risultato del polverone tutto politico che l’accompagna, e che può essere così riassunto: Matteo Renzi, anche a non voler accreditare propositi di rivincita post- referendari peraltro sempre smentiti, non ha per nulla abbandonato anzi... - l’idea di andare al voto a giugno assieme alle amministrative perchè consapevole che più passano le settimane più i suoi avversari dentro e fuori il Pd si irrobustiscono. Dunque è vitale definire l’assetto di vertice del partito mediante un congresso spint che riconfermi la leadership dell’ex premier e poi, altrettanto velocemente, attrezzarsi per lo scontro elettorale anche lucrando il fatto che i fuoriusciti dal Pd avrebbero pochi margini per preparare liste e programmi. È’ tutto vero. Solo parecchio incompleto. E il fittissimo pulviscolo di polemiche - evidentemente non attinenti solo agli sgambetti degli scissionisti - che accompagna la definizione del calendario congressuale impedisce appunto di vedere cosa c’è davvero in ballo. Innanzi tutto per votare serve una legge elettorale di cui allo stato non c’è traccia. E non solo del testo: manca addirittura il terreno di confronto. In secondo luogo, sussiste il problema assai spinoso di come arrivare allo scioglimento: superando le perplessità del capo dello Stato ( obiettivo già piuttosto improbo) e mandando a casa il governo Gentiloni. Sono, ambedue, ostacoli che da soli sconsiglierebbero di ingaggiare un braccio di ferro imbastito di forzature e accelerazioni dal risultato tutt’altro che scontato.

Però non basta: c’è parecchio altro. Lo si capisce, paradossalmente, osservando l’ingrossarsi del partito del voto subito che ingloba voci, ancorché autorevolissime, giustapposte tra loro. Come quella di Roberto D’Alimonte sul Sole 24 ore, oppure degli anonimi editorialisti del Foglio.

Espressioni l’una tecnico- politica del quotidiano della Confindustria e l’altra totalmente politica che fa il tifo affinché Berlusconi impugni a quattro mani con Renzi la bandiera della lotta al populismo grillino demagogico e anti- sistema. In entrambi i casi la giustificazione per scivolare di corsa alle urne è di stampo economico: poiché se si vota a otto- bre salta la legge di Stabilità ( ex Finanziaria), meglio aprire i seggi a giugno anche a costo di litigare con la Ue sulla manovra di aggiustamento di 3,4 miliardi, piuttosto che pagare un pesantissimo dazio lacrime e sangue ( ricordate Mario Monti?) tra alcuni mesi.

Dunque non solo l’inner circle del Nazareno ma anche settori importanti dell’establishment economico e del berlusconismo forse corsaro ma mai trasformista, spingono per tagliare i tempi e votare prima dell’estate.

Vogliamo provare ad analizzare queste motivazioni? Primo scenario. È senz’altro vero che allungare il brodo di una legislatura a detta di molti esangue dopo che il Pd, perno del sistema politico, avrà esaurito la partita congressuale, può apparire contrario al buonsenso. Come pure è plausibile sostenere che far saltare la legge di Stabilità equivale a un balzo nel regno dell’irresponsabilità. Però è anche vero che andare alle urne senza legge elettorale o con un semplice ritocco della sentenza della Consulta, minaccia di produrre un quadro di ingovernabilità piuttosto serio. Il rischio è che non solo nessuna lista, nessun cartello, nessuna alleanza ottenga la maggioranza dei voti ma che neppure dopo il voto, a causa dei veti contrapposti, si riesca a dare vita ad accordi per varare un esecutivo. Con il risultato di precipitare nella sindrome spagnola: passati pochi mesi, di nuovo alle urne. Senza naturalmente che l’Italia abbia varato neppure uno straccio di legge di bilancio.

Secondo scenario. Non si vota a giugno ma a scadenza naturale, nel 2018. Il che consentirebbe al Paese di rispettare gli impegni europei, scongiurare l’avvio della procedura di infrazione da parte della Commissione Ue e proseguire sulla strada del risanamento. La controreplica è sullo stesso terreno. I fautori di urne subito, infatti, sostengono che nelle condizioni date la legge di Stabilità del prossimo autunno si trasformerebbe in un carrozzone elargitivo di puro stampo elettorale. Con il risultato di aggravare ulteriormente invece di alleviare le già sofferenti casse pubbliche. Ne vale la pena? E soprattutto: ce lo possiamo permettere?

Il terzo scenario concerne la possibilità che si vada a votare a ottobre. Al momento - e al netto delle condizioni ostative già elencate - è l’ipotesi più gettonata. Non tanto per l’aspetto politico quanto proprio per quello della salvaguardia dei conti pubblici. Ma con una motivazione che per forza di cose deve rimanere nel non detto: se la legge di Stabilità non c’è, infatti, la soluzione obbligata è il ricorso all’esercizio provvisorio per un massimo di quattro mesi, fino cioè al 30 aprile 2018. Che significa dividere la spesa dell’anno precedente per 12 e autorizzare esborsi solo di un dodicesimo per i mesi per cui si ricorrre all’esercizio provvisorio medesimo. Insomma un freno alle manovre elettoralistiche e, seppur temporalmente limitate, anche alle cure da cavallo. Se la situazione sfugge di mano, se i risultati elettorali non consentono di formare una maggioranza, quell’argine di alcuni mesi può diventare il bastione dove ci si augura si infrangerebbero i tentativi di speculazione da parte del mercato e degli operatori vogliosi di puntare sull’ingovernabilità. Uno sbocco non propriamente esaltante. Ma meglio del default.