Chi si immagina pire di libri tra i marciapiedi di Kiev è fuori strada. Dalle matrioske a Dostoevskij, la cultura russa non si può ridurre a una poltiglia da cestinare. Lo sanno anche gli ucraini. Quelli che nella follia della guerra hanno l’istinto di rimuovere lingua e abitudini. E quelli che ostinatamente difendono radici e gusti. Gli uni non giudicano gli altri, e nessuno dovrebbe, da spettatore. «Per mesi ho criticato chi pretende di cancellare, chi vorrebbe che buttassi via la mia collezione di bambole. Ma poi ho capito: bisogna rispettare il dolore, e aspettare che la ragione torni a brillare», spiega una ragazza ucraina. Di professione fa la cantante, e all’inno della resistenza abbina il repertorio napoletano. Il suo orizzonte è europeo, ma tra le mani stringe ancora le confessioni di Tolstoj, sperando che nessuno la odi per questo. Odio e amore, ecco come si riduce la complessità dentro un conflitto. Ce lo spiega anche un altro ragazzo, che ha messo in cantina la sua lingua madre, ma a malincuore. Qui tutti hanno un parente, un amico russo. L’album di famiglia non si può stracciare, anche quello finisce in soffitta. «Dostoevskij è sempre stato il mio autore preferito, e non smetterà di esserlo tutto d’un tratto». Sul sedile posteriore dell’auto però ha un libro di Stephen King. «Ti piace?», chiedo. «Non molto, lo legge mia figlia e allora cerco di mettermi al passo - racconta -. Lei parla inglese e francese, vorrebbe studiare in Canada». Alla passione per la letteratura unisce quella per il cinema. Per raccontare il 24 febbraio si affida all’immagine topica di Independence Day, gli alieni che invadono. Quando è scoppiata la guerra c’era anche un film in cantiere, messo su insieme ai colleghi: parla di un giudice che si unisce all’esercito. Nulla da fare, meglio archiviare. «Ma non credere che ci sparino a vista, se parliamo russo», mi dice con un po’ di scherno. «Semplicemente preferisco non farlo, per rispettare la sensibilità di tutti». Anche il suo di orizzonte, è europeo. «Se c’ero a Maidan? C’eravamo tutti, tutti abbiamo fatto la rivoluzione». Sentirsi europei sembra naturale, ma c’è ancora tanto da elaborare. Meglio parlare d’altro. E allora parliamo di Dante e Boccaccio. Di Sorrentino, «The Great Beauty. Have you seen?». Io mi vergogno, non saprei citare neanche un film ucraino. Ma almeno condividiamo la passione per quelli francesi, e l’imbarazzo passa in un attimo. Piacciono anche a Masi, avvocato-soldato, e quando gli chiedo di raccontarmi il giorno in cui è rimasto ferito, anche quel ricordo ha a che fare con un film. «È l’ultimo che ho guardato con tutti e due i miei occhi», prima che lo colpisse una mina. Ma ora non prova odio, e lo dice inghiottendo l’amaro. Sul comodino dell’ospedale ha un libro dal titolo «perché sogniamo?». Serve a lasciare andare i pensieri cattivi. E ne viene fuori una lezione, una lezione di equilibrio per quelli che chiacchierano di cancel culture sedendosi sulla poltrona della morale, o per quelli in Europa che cacciano musicisti e insegnanti dai luoghi della cultura.