In Italia, e ancora più a Roma, siamo capaci di rendere le favole delle tragedie. E poi delle farse. Francesco Totti, a Bergamo, alla soglia dei 40 anni, con un esterno potente dei suoi, riacciuffa una partita decisiva per i capelli, poi mette una palla poetica sui piedi di Dzeko. Una società seria, o anche solo furba, manderebbe il suo dg a celebrare il campione, l’icona, la bandiera. Toglierebbe dall’imbarazzo il numero 10 e l’allenatore, in evidente difficoltà per un rapporto personale giunto ai minimi termini, e si porterebbe a casa un punto d’oro (nella corsa al terzo posto contro l’Inter) e pure il punto d’onore.Niente da fare, come dice Mastandrea nella splendida intervista a Malcom Pagani sulla Rivista Undici, unico esempio di analisi calcistica di alto livello e profilo in Italia, un So Foot all’italiana, a Roma quando le cose sembrano andare male, stanno per andare peggio.Roma, la capitale in cui non è mai possibile praticare la normalità. La Capitale che ha una caratteristica, ormai quasi una tara antropologica, una sorta di maledizione: essere un porto delle nebbie. Lo è stato il tribunale, con sentenze pagate ed emesse in cinque giorni, lo è stato il Campidoglio con una mafia che ha attecchito su una burocrazia mostruosa, kafkiana, soffocante. Lo è la politica, qui una sabbia mobile che ingoia tutto e tutti, restituendo piani urbanistici scritti sotto dettatura di chi costruisce palazzi e non di chi dovrebbe tirare su il futuro di una città. E sì, lo è anche Trigoria.Luciano Spalletti lo sa. Molto bene. Così tanto che con un tono cantilenante e un po’ saccente nella prima conferenza stampa – e nelle tante che sono seguite – ha tenuto a dire che lui, quella nebbia, sapeva come diradarla. Aveva fatto capire che erano anni che ci pensava e che finalmente aveva capito. Che non avrebbe più accettato di procedere a tentoni in mezzo a quell’oscurità, che “le combriccole” non le avrebbe più accettate. Quei giornalisti, quei leader dello spogliatoio, quel sottobosco che lo avevano blandito e sostenuto fino a che era loro convenuto per poi abbandonarlo dopo la chiacchierata con il Chelsea (leggenda metropolitana sostiene che un Ancelotti incontrato per caso avesse spifferato tutto), non avrebbero avuto più alloggio nel suo cuore e nelle zone grigie dell’As Roma. Aveva aspettato che Rudi Garcia cuocesse a fuoco lento nel suo declino per ottenere pieni poteri, era corso in America a incontrare Pallotta per questo. Voleva, come Franco Baldini all’inizio dell’avventura degli americani, cambiare tutto. Dimostrare che a Roma “si può vincere, che non è una città diversa dalle altre”. Ci credeva Luciano, con il fisico asciutto e la barba. Non era più quel ruspante provinciale d’un tempo, la Russia ce l’ha restituito manager e cool.Ma Roma è più forte di tutto e di tutti. Ci troviamo a parlare di un regolamento di conti nello spogliatoio di Bergamo. Tra smentite e sputi, botte da orbi e insulti illuminanti (“non vincete un cazzo da 10 anni, inanellate solo figure di merda” e “a Roma ci sono il sole e i monumenti, e così molti si dimenticano delle priorità come famiglia e squadra” spifferano i topolini che l’allenatore aveva minacciato di schiacciare). E il mister che voleva fare la rivoluzione si trova ostaggio di quel rapporto d’amore spezzato con il Pupone, quel calciatore che lo aveva reso grande e che, secondo lui, gli era costato la panchina giallorossa. Con questo duello dietro e davanti alle telecamere ci dice che quando andava in giro per le lande sovietiche a dire che lui ha la maglia giallorossa cucita a pelle, intendeva anche che è romanista nelle paranoie trigoriane. Quelle che creano, di volta in volta, le mode secondo cui quel giocatore “sia il male della Roma”, che “il Sistema ci gioca contro” e soprattutto che ad agosto si debba sempre pensare “allo scudo e al Circo Massimo”. Cinque anni. E quel Totti di cui rifiutò i complimenti dopo la vittoria dello Zenit in Europa League, è ancora un fantasma.E’ tornato, Spalletti, e si è visto nelle dichiarazioni ufficiali di ieri, piuttosto grottesche, più infognato nelle logiche perverse giallorosse di quando se n’era andato. L’attacco a Totti che “poteva mettere 5 palle e non due contro il Bologna, e farci vincere”, che “demoralizza Dzeko”, che “non ha salvato la partita”, ha qualcosa di demenziale e patologico. Bastava dire “visto? So come gestirlo, è il nostro Altafini, zitti tutti: queste ultime due partite confermano che non ho pregiudizi verso di lui e che so quanto può dare e come”. E invece no, perché Trigoria è da sempre il far west, un luogo in cui bazzicano troppe persone e Spalletti non voleva cambiare verso, ma semplicemente instaurare la sua dittatura, secondo le stesse logiche. Sperava che un pugno di vittorie e un’epurazione bastassero, ma non aveva pensato che il Ranieri che sta vincendo la Premier, che il Luis Enrique che sa gestire i tre giocatori più forti del mondo, che tanti grandi allenatori avevano già fallito miseramente.E Trigoria continua a essere terreno di conquista di speaker di radio e capipopolo improvvisati (ora apertamente a libro paga della società con la radio ufficiale), giornalisti amici e topolini che raccontano tutto fuori. E lo spogliatoio è da sempre una partita a Risiko in cui l’obiettivo non è vincere insieme, ma cancellare le armate dell’altro. A Roma tutto è una faida: l’emittenza privata, radiofonica e televisiva, ne è una dimostrazione plastica. Luciano, ma anche Francesco, non si rendono conto che questa città e le sue logiche li hanno inghiottiti. Luciano, Roma, la vive come una nemica: pensate solo alla battaglia contro Florenzi, maltrattato dialetticamente dopo la Juventus, al De Rossi messo ai margini e ora ripescato, al Totti non rispettato per tutto ciò che ha dato, a lui e alla società. Ovvero una guerra senza quartiere ai romani, prima di tutto. Una psicosi che dimostra che i due protagonisti di questa storia avvilenti sono schiavi di Roma. Dell’amore per i colori e una città che ti entra dentro: Spalletti ha voluto, forse è dovuto tornare, non poteva farne a meno. Totti non è riuscito ad andarsene, rinunciando forse a una carriera unica e vincente. E ora scoprono che non è valsa la pena di sacrificarsi sull’altare della Lupa.Luciano si è ritrovato una società inadeguata, che non ha saputo proteggerlo e anche fermarlo. Americani che si sono scoperti influenzati e condizionati più dei romani dall’ambiente (la scelta di Zeman ci dice tantissimo, così come la gestione del caso Totti). Che brillano per assenza e incompetenza, che hanno assunto nei loro metodi che volevano essere innovativi le tortuose traiettorie capitoline. Pensateci: Sabatini, forse, non si è illuso di essere il capo e ora si ritrova capro espiatorio? Come ora lo è Totti e presto lo sarà Spalletti. A Roma non si vince mai. E il motivo è tutto in questo Atalanta-Roma 3-3, ennesimo replay di una scena vissuta tante, troppe volte in casa giallorossa.Roma, purtroppo va sopportata, magari un po’ odiata o vissuta con olimpico distacco. Non a caso chi ha vinto nella capitale aveva una nordica superiorità nei confronti dell’ambiente come Liedholm o, come Capello, ha imposto la sua legge ed è "scappato" prima di bruciarsi.