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La tensione tra Cina e Taiwan ha origini storiche datate. «Nasce», dice al Dubbio Alessia Amighini, esperta di Asia dell'Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) e professoressa di Economia politica, «il giorno della fondazione della Repubblica popolare cinese nel 1949». «Oltre settant’anni fa – sottolinea - i dissidenti scapparono a Formosa e fondarono la Repubblica di Cina, mai riconosciuta dalla Cina, costringendo con il ricatto, di cui la Cina stessa è maestra assoluta, a non riconoscere formalmente Taiwan come paese».
L’attenzione rivolta a Taiwan, riaccesa a seguito della visita della speaker della Camera degli Stati Uniti, Nancy Pelosi, è sempre stata alta da parte degli studiosi di questioni asiatiche. «Il contesto di cui stiamo parlando – evidenzia Amighini - è un vero e proprio laboratorio di conflitto da tanto tempo. L’occidente e tutto il resto del mondo sono stati complici. Abbiamo ceduto in pratica al ricatto di Pechino. Nessuno si salva. Gli unici di cui si parla poco, purtroppo, sono i poveri taiwanesi. Parliamo dell’Islam, dei droni, delle navi, degli eserciti che sono dispiegati in casa loro, ma dei taiwanesi, circa 20milioni, nessuno parla».
Tensione Cina-Taiwan, Amighini: «Pelosi ha fatto bene ad andare a Taipei»
Il viaggio di Nancy Pelosi non creerà spaccature nell’amministrazione Biden e non va neppure visto come una provocazione. C’erano, infatti, tutti i presupposti politici perché una carica così importante si recasse in Estremo Oriente, nonostante alcuni retroscena che hanno riferito della contrarietà del presidente Biden. «Pelosi – afferma la studiosa dell’Ispi - aveva tutto il diritto di andare a Taiwan. A ben vedere, dati i contorni del suo viaggio in Asia, nei paesi che compongono l’alleanza dell’indo- pacifico, non recarsi a Taiwan avrebbe significato assecondare le mire di Pechino. Secondo me, Nancy Pelosi ha fatto molto bene a raggiungere Taiwan. Non dimentichiamo che la sua non era formalmente una visita di Stato, ma nei contenuti ha avuto tutte le caratteristiche di una visita del genere. Questo ha fatto imbestialire Pechino. Non andare a Taiwan sarebbe stato un modo per mostrare una debolezza politica e diplomatica estrema nei confronti della Cina. La narrativa, secondo la quale Pelosi ha scatenato le ire di Pechino, non ha senso. Anzi, Pechino ha alzato i toni e ha deciso a un certo punto che avrebbe voluto riunificare la Cina. Le provocazioni nascono dalla Cina non certo da Pelosi».
A proposito di prove muscolari la Cina ha avviato subito imponenti esercitazioni militari. «Sono operazioni – commenta Amighini - che si verificano da tanti anni. Il “piano A” dell’esercito cinese è quello dell’invasione di Taiwan, come fanno tutti gli eserciti e come ci spiegano sempre gli esperti militari. Per la Cina il piano riguarda l’invasione di Taiwan. Come spesso succede, non è mai un’azione attiva. È sempre costruita in modo da sembrare una reazione a qualche intrusione più o meno inaccettabile e questo corrisponde a quanto sta accadendo in queste ore. Pechino sta facendo delle esercitazioni politiche e militari per capire come il mondo reagirebbe ad una sua eventuale messa in atto di questo piano. La Cina non vuole scatenare conflitti. Vuole alzare i toni e mostrare in questo contesto i denti. Non dimentichiamo poi che Taiwan è un paese molto importante da un punto di vista economico a livello internazionale e gli Stati Uniti reagirebbero pesantemente. Si stanno comunque marcando contrapposizioni forti tra l’occidente ed un altro blocco contrapposto».
La Cina non accetta interferenze e vuole conservare la leadership nell’area. «Le contrapposizioni e le tensioni – rileva Amighini - nascono dall’ambizione della Cina di guidare il continente asiatico e cercare di convincere gli alleati degli Stati Uniti in Asia orientale rispetto alla non convenienza a contrapporsi alla sua potenza. Questa situazione si è definita prima della guerra commerciale scatenata da Trump. Le narrative hanno fatto credere alla storiella della globalizzazione di cui tutti beneficiano. Ma questo è un altro discorso. Nei fatti ci sono da tempo dei blocchi, anche se non isolati, che tendono a creare delle linee di frattura, ma pure di conflitto e di competizione. Oggi, con l’invasione russa in Ucraina, abbiamo sotto gli occhi un mondo che non è più un tutt’uno. Ci sono dei paesi che non sono propriamente democratici. Per esempio Russia e Cina si considerano “diversamente democratici” e hanno mostrato un atteggiamento molto discutibile, facendo fronte comune».
Grande attenzione viene rivolta da Amighini a come vengono raccontati i fatti. «L’attuale narrativa - spiega - deve essere accomandante. Non può più far finta che ci sia una globalizzazione che funziona bene per tutti se non ci sono i conflitti nel mondo. Chi ha cambiato le narrative non è stato Trump. Lui ha recepito in modo molto saggio, anche se è difficile ammetterlo, una provocazione estrema del governo cinese, che ha contestato le produzioni a basso costo in Cina.
«La Cina non rischierebbe la terza guerra mondiale»
Quest’ultima ha dichiarato di fare a meno di altre potenze mondiali e trasformare il proprio paese in un leader tecnologico. Di qui l’attenzione per Taiwan, dove si producono microprocessori. La provocazione cinese ha suscitato la reazione scomposta, già qualche anno fa, degli Stati Uniti guidati da Trump con una guerra commerciale. Dunque, è stata la Cina a cambiare le carte in tavola e iniziare a rendersi indipendente da un punto di vista tecnologico».
Il peso geopolitico che si gioca in Asia ha una chiara connotazione. «L’aspetto economico - conclude la professoressa Amighini - è molto rilevante nelle questioni legate a Taiwan. Se non fosse per la grande importanza di Taiwan nel settore dei microprocessori non credo che la Cina rischierebbe la Terza guerra mondiale. Questo è il tema principale, a mio avviso, legato alle tensioni tra i due paesi. Non dimentichiamo, inoltre, che già da qualche anno i cinesi stanno cercando di convincere gli abitanti di Taiwan a votare per l’unificazione e far pesare l’influenza economica della Cina».