Naturalmente non vogliono sentirselo dire né Giuseppe Conte, al quale neppure o soprattutto Beppe Grillo in fondo sembra voler perdonare la crisi, né il centrodestra che alla fine ha contribuito alla caduta del governo pur di anticipare il ricorso alle urne reclamate sino al giorno prima solo da Giorgia Meloni. Ma Mario Draghi continua ad essere il convitato di pietra, quasi il fantasma di questa campagna elettorale eccezionalmente estiva e breve. I numeri, particolarmente quelli ultimi del Fondo Monetario Internazionale e dell’Istat, parlano da soli a favore del presidente del Consiglio per ciò che ha fatto e per quello - sottinteso, ma neppure troppo - che potrebbe fare se dalle urne dovesse uscire un quadro di permanente “incertezza politica”, come dicono o temono al Fondo Monetario Internazionale.

Altro che “forte discontinuità”, cambio di passo ed altre amenità di quel documento in nove punti che Conte ancora si vanta di avere presentato animatamente a Draghi in persona rimanendo senza risposte sia a Palazzo Chigi sia al Senato, nel dibattito di verifica della maggioranza imposto dal presidente della Repubblica. Il governo aveva solo bisogno di continuare la sua azione sino al termine ordinario della legislatura, di proseguire sulla strada che - abbiamo appena saputo - ha consentito nello scorso mese di giugno di raggiungere il massimo dell’occupazione dal 1977, cioè da quando la si monitora come adesso, pari al 60,1 per cento.

La “impressionante ripresa” dell’economia italiana - parola sempre del Fondo Monetario Internazionale - è tanto il vanto di Draghi oggi quanto la smentita del processo politico fattogli ieri da chi ne ha voluto la caduta, fallendo solo nel tentativo, che pure è stato compiuto dietro le quinte ma respinto dal capo dello Stato, di non fargli gestire le elezioni anticipate. Già, perché anche questo volevano, in particolare, Conte e forse, sotto sotto, persino Berlusconi: togliere subito dal governo un presidente del Consiglio troppo ingombrante per il suo prestigio internazionale e, con lui, ministri non in linea con gli umori, i progetti, le tendenze dei propri partiti e dei cerchi più o meno magici che li guidano con senso più proprietario, o cortigiano, che politico.

Non è certamente per caso che, uscitone con una sessantina di parlamentari, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio abbia preso l’abitudine di parlare del MoVimento 5 Stelle come del “partito di Conte”. Al quale Grillo ha appena negato prima le deroghe al divieto del doppio mandato, poi l’intestazione delle liste e infine il rispetto della svolta promessa nello statuto di non praticare la violenza verbale nel dibattito politico. Il comico, garante e quant’altro ha appena deciso di farsi la sua campagna elettorale con l’album delle figurine dei traditori, transfughi, zombie e malati del “morbo dei partiti”. Persino una dura come la vice presidente del Senato Paola Taverna, decisa a “sfonnare” tutti, se n’è in qualche modo dissociata dichiarando di avere “l’occhio rivolto solo a chi è rimasto nel movimento”.

In curiosa concorrenza con Grillo, anche da parte di Berlusconi o dei suoi fedelissimi o intimi si è preferito insultare più che criticare quanti hanno lasciato Forza Italia, tacciandoli di “ingratitudine”, “tradimento” e persino di nanismo, nel caso del povero Renato Brunetta, coprendosi dietro una vecchia canzone in cui del nano si lamenta la vicinanza del cuore all’ano. Ah, che cosa il Cavaliere è riuscito a tollerare che si dicesse attorno a lui di persone che gli sono state accanto per una trentina d’anni e più, ricavando anche qualche incarico e mandato parlamentare, per carità, ma pure parecchi insulti e fastidi. Ce ne sono anche di coimputati nei suoi pur assurdi e allucinanti processi, possibili solo in un sistema giudiziario balordo come quello italiano.

Per tornare al presidente del Consiglio, a ciò che ha fatto e si è voluto interrompere o impedire di fare ancora, non è certo peregrina l’osservazione fatta al Corriere della Sera da Emma Bonino sulla cosiddetta agenda Draghi commentando e sostenendo la chiarezza, o la minore confusione possibile, reclamata da Carlo Calenda nel negoziato elettorale col segretario del Pd Enrico Letta. Del quale la Bonino fu apprezzata ministra degli Esteri nel 2013 ma che «per più di tre anni non ci ha filato, preso da un’attrazione totalizzante per i Cinque Stelle», ha lamentato la politica italiana forse più conosciuta nel mondo.

«Per noi - ha detto la Bonino - l’agenda Draghi non era per i prossimi cinque mesi ma per i prossimi cinque anni. Se ci si richiama, per dare esempi concreti, non si può osteggiare l’installazione di due rigassificatori galleggianti, perché è un tema di sicurezza energetica. Così sul termovalorizzatore a Roma, che è in condizioni inaccettabili per i rifiuti. Anche sul reddito di cittadinanza stiamo con Draghi: non cancellarlo ma riformarlo. Non un programma, ma poche cose chiare». E candidature conseguenti almeno nei collegi uninominali di coalizione, come alla fine è stato concordato.