Pubblichiamo un articolo del 2007 apparso su "Ristretti Orizzonti", a firma di Maurizio Bertani. È colui che si è ucciso l’altra notte al carcere di Montorio. Un profondo articolo che parla proprio dei sucidi in carcere. La direttrice Ornella Favero di Ristretti, lo ha ritrovato in suo ricordo. Il suicidio credo sia un attimo in cui il buio ti travolge, e non ti fa razionalmente capire cosa stia succedendo: io in carcere a volte ho passato quell’attimo, poi la ragione torna a riprendere il suo posto, e non si arriva più ad un gesto così estremo. Nel “mondo libero” però ci sono più opportunità di recupero del proprio raziocinio, per il semplice fatto che qualunque sia la disgrazia che capita, le persone hanno almeno un forte ambiente sociale e famigliare che fa da scudo e protegge. Io in carcere ci sto vivendo e anche se “a spezzoni” vi ho trascorso gli ultimi trent’anni, cosi ho avuto modo di vedere molte vite spegnersi dietro quel gesto irrazionale del suicidio. Ho visto ragazzi, ma anche adulti stremati nel fisico e nella mente per la gravità del reato commesso, ho visto gente prendere elevatissime condanne, e vivere in quel limbo di mancanza di raziocinio che spinge a gesti estremi, ho vissuto sulla mia pelle la realtà della morte di una persona cara e il fatto di non voler accettare che un padre sopravviva al proprio figlio. Più di una persona non è riuscita a “rientrare” da quella perdita totale di equilibrio e razionalità, qualcuna per fortuna ha poi ritrovato un minimo di desiderio di vivere. Ma raramente ho visto le istituzioni delle carceri dove sono stato attivarsi per prendere in carico davvero le persone, attraverso psicologi e personale competente, e dare loro assistenza e sostegno, eppure non mi possono dire che non si sono accorti del loro star male. Perfino a me, semianalfabeta in materia di psicologia, spesso queste situazioni si sono presentate chiarissime. Io sono consapevole che in carcere le persone sono più fragili perché non hanno neppure la protezione della famiglia e degli amici, ma allo stesso tempo sono convinto che chi deve sorvegliare ha le sue responsabilità: la sorveglianza di persone private della libertà dovrebbe infatti prevedere un costante lavoro di recupero sociale e di salvaguardia della vita umana. Certo ci sono episodi che nessuno può realmente prevenire, ma ce ne sono altri, forse troppi, che si potevano evitare, e non credo che sia impossibile immaginare un’attenzione diversa per le persone detenute che manifestano un disagio particolare. Mi chiedo se è giusto che tante persone muoiano in galera in una società che orgogliosamente si vanta di aver presentato all’Onu la moratoria contro la pena di morte, così lodevole sotto il profilo umanitario. E mi domando anche se non sia il caso che chi si batte contro la pena di morte cominci a indignarsi e a chiedere a gran voce che si faccia di più perché in carcere si muoia un po’ meno. O forse è meglio lasciare le cose come stanno, tanto, chi può scandalizzarsi se si suicida un detenuto, cioè un emarginato dalla società? alla fine non se ne accorge quasi nessuno, se non i suoi stessi famigliari.