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«Se l'è andata a cercare. Sapevamo che era una ragazza un po' movimentata». «Purtroppo corre voce che questo non sia un caso isolato. C'è molta prostituzione in paese». Sono frasi pronunciate con le fiaccole ancora accese, davanti alla stazione di Melito Porto Salvo. Frasi appuntate dal giornalista de La Stampa, Niccolò Zancan, durante una marcia silenziosa di protesta contro la terribile violenza subita da una ragazzina per due anni. Da quando ne aveva tredici, un gruppo di ragazzi - tra i quali il figlio del boss, il figlio di un militare e il fratello di un poliziotto - ha approfittato di lei. Minacciata, denigrata, violentata e ora abbandonata da una parte del proprio paese, che quasi non si sorprende ed etichetta tutto con prostituzione e 'ndrangheta. Come se fosse nella sua natura, per alcuni, e impossibile reagire, per altri. Perché tutti - o quasi -, ha spiegato il capo della Dda, Federico Cafiero de Raho, sapevano e hanno taciuto. «Sono tutte vittime - dice il parroco durante la manifestazione -, anche i ragazzi». Quei ragazzi che, secondo la procura di Reggio Calabria, l'hanno ridotta ad un oggetto. Maria - il nome è di fantasia - se li ritrovava davanti al cancello di scuola, almeno un paio di volte a settimana.La facevano salire in macchina, poi usavano il suo corpo, sul letto di una casa di montagna o sui sedili dell'auto. A turno o tutti insieme, con l'obiettivo puntato su di lei, pronti a minacciarla se mai avesse avuto voglia di ribellarsi. In principio c'era quello che credeva fosse amore. Per Davide Schimizzi, che all'epoca aveva 20 anni. Ma dopo un allontanamento, il modo per farsi "perdonare" era quello di concedersi al gruppo. Data in prestito agli amici, come un oggetto. Tanto da sembrarle scontato tutto quanto. «Sono una merda», si ripeteva. E si feriva, tagliandosi le braccia e le gambe. Agli psicologi del tribunale ha raccontato i dettagli di questa discesa agli inferi. Le lenzuola rosa e il copriletto beige che le toccava rimettere a posto.Soffocata da una «recalcitrante rassegnazione», la stessa che sembrava pervadere la madre, preoccupata dal fatto che la notizia potesse diffondersi. Perché loro erano più forti. Loro sono Giovanni Iamonte, 30 anni, figlio del boss Remingo, proprietario della villetta degli orrori, Daniele Benedetto (21 anni), Pasquale Principato (22 anni), Michele Nucera (22 anni), Davide Schimizzi (22 anni), Lorenzo Tripodi (21 anni) e Antonio Verduci (22 anni). Con loro è finito in cella anche G. G., oggi 18enne, ma all'epoca dei fatti minorenne. Quando lei ha provato a cambiar vita, legandosi ad un altro, loro lo hanno accerchiato, minacciato, picchiato. E lui ha "restituito" Maria. Lei, però, aveva provato a raccontare. Lo aveva fatto in un tema, provando ad inventarsi le parole sugli abusi subiti. La brutta copia di quel compito era finita sulla sua scrivania, tra le mani della madre. Bisognava descrivere il ruolo dei genitori nella propria vita. E Maria, che non aveva parlato per proteggerli, era comunque arrabbiata con loro che, troppo presi dalle loro vite, non si erano accorti di niente. «Come fai a non accorgertene che tua figlia sta attraversando un periodo difficile, una difficoltà, niente completamente?», raccontava allo psicologo. Di fronte alle domande della madre aveva poi deciso di raccontare tutto. Ma non è bastato. La donna ha comunque deciso di non dire nulla, per non provocare «un discredito della famiglia».Così ci hanno provato le professoresse, tentando di convincere la madre a coinvolgere la scuola. «Mi ha opposto un netto rifiuto quando le ho chiesto se potessi comunicare la notizia all'intero consiglio di classe che avrebbe così potuto attivare i previsti percorsi di legge», ha raccontato una docente. E anche la cugina aveva deciso di rimanere in silenzio. Maria era, dunque, sola. E i suoi genitori solo nel 2015 si sono presentati in caserma chiedendo aiuto. Eppure molti sapevano, molti vedevano. «Questi abusi - ha spiegato De Raho - hanno trovato terreno fertile in un territorio in cui l'omertà regna sovrana e la sopraffazione è l'unico metodo conosciuto». Una «rappresentazione plastica della schiavitù» alla quale si è sottoposta gente che ha deciso di voltare lo sguardo altrove, per non immischiarsi in questioni troppo grandi. Perché di mezzo c'era quel nome - Iamonte - che fa paura a tutti. Ora da un lato c'è chi, come il sindaco, attacca la stampa, rea di aver diffuso un'immagine "sbagliata" di Melito. Dall'altro, invece, c'è chi come Titti Carrano, presidente della Rete nazionale dei centri antiviolenza, esorta il ministro Maria Elena Boschi a fare tappa a Melito. Dove le donne della Fidapa, scrive, avevano cercato di aprire un dibattito sul tema. «Queste cittadine e questi cittadini ora rischiano l'isolamento - afferma Carrano -. Il sindaco insulta i giornalisti, il parroco consiglia di tacere, e viene biasimata da molti una fiaccolata di solidarietà con la bambina stuprata cui hanno partecipato 1000 persone». Orrori che non hanno giustificazione territoriale ma che rischiano di finire archiviati o ridotti ad etichetta. «C'è chi ha interesse a mentere i cittadini di questo territorio sotto il tallone della criminalità - continua -. Ma se lei va a Melito Portosalvo, le cittadine e i cittadini che sono inorriditi dell'accaduto avranno il coraggio di uscire di casa per venire ad ascoltarla».