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maternità surrogata
«Quei venticinque giorni di attesa sono stati tremendi perché lo vedevamo nei servizi del Tgcom o di Rai Tre, vedevamo nostro figlio in televisione ma avevamo poche notizie dalla clinica». Evelina e Michele vogliono un figlio, ma Evelina ha una malattia rara e la gestazione è troppo pericolosa. Provano a ottenere l’idoneità per adottare, ma Evelina deve iscriversi nella lista di attesa per un trapianto e quella lista è incompatibile con l’adozione.
Allora, dopo mille dubbi, decidono di provare con la maternità surrogata in Ucraina. Va bene al primo tentativo e la donna che porterà avanti la gravidanza rimane subito incinta. «Una fortuna sfacciata», mi dicono. Ma pochi giorni prima del parto scoppia la guerra. «Avevamo già le valigie pronte per andare a prendere nostro figlio». Ma devono aspettare, e quei giorni di attesa sembrano non passare mai. «Abbiamo cominciato a parlare con la nostra madre surrogata proprio quando è scoppiata la guerra. La clinica ci diceva solo di non preoccuparci, che erano al sicuro. Ma noi eravamo lo stesso preoccupatissimi, e ancora di più dopo che il bambino è nato». Evelina e Michele sono in ansia anche per la gestante, pensano che lei è lì a Kiev per loro, per andare a partorire, e si sentono responsabili. Parlano spesso al telefono, anche dopo la nascita di Achille, quando lei è tornata a casa sua, dalla sua famiglia. Vuole sapere come stanno e se sono riusciti ad arrivare e a prendere Achille.
Ecco, come sono riusciti a prendere Achille in un paese in guerra? «La clinica ci diceva che bisognava aspettare e durante l’attesa siamo entrati in contatto con le avvocate Filomena Gallo, che è anche il segretario dell’Associazione Luca Coscioni, e Francesca Re che ci hanno aiutato a cercare una soluzione e ad accelerare il processo per rientrare. Siamo andati in Polonia, poi abbiamo passato il confine a piedi e dall’altra parte ci aspettava un altro trasporto. In tutto questo lungo percorso le avvocate ci hanno seguito, cioè ci seguivano proprio con la geolocalizzazione, e ci sono state vicinissime, ci hanno fatto quasi da psicologhe».
Evelina e Michele rimangono solo pochi giorni in Ucraina, il tempo per fare il certificato di nascita e per avere il passaporto provvisorio per poter tornare in Italia. «Non avevo mai dato da mangiare a un neonato o fatto un bagnetto, è stato tutto molto veloce» mi dice Evelina. «Quando lo abbiamo visto per la prima volta è stata un’emozione fortissima. Ho una foto dove piango come una fontana». Il ritorno è stato un po’ più complicato. «Abbiamo preso un pullman, ci siamo stati molte ore perché c’era una lunga coda di profughi per uscire. E io, ti dico la verità, avevo un po’ paura durante il viaggio, che mi è sembrato più lungo dei giorni di attesa. Achille è stato buonissimo, ha dormito tutto il tempo, svegliandosi solo per mangiare e per il cambio del pannolino. Finalmente siamo arrivati in Polonia e abbiamo aspettato altre due o tre ore l’aereo. È stato bravissimo anche in aeroporto, e poi in aereo, con tante persone che lo guardavano e ci dicevano ‘ma un bambino così piccolo, ma è adatto a viaggiare?’. Eravamo così impazienti di arrivare a casa».
Evelina e Michele decidono di raccontare la loro storia domenica scorsa durante il XIX Congresso dell’Associazione Luca Coscioni. «All’inizio non lo volevamo dire – o meglio non lo volevamo dire pubblicamente perché a nostro figlio lo racconteremo. Però poi a un certo punto ci siamo detti che non avevamo fatto niente di male e che magari quello che era successo a noi poteva far sentire meno sole altre persone, che poteva essere utile». Ci tengono a ribadire che la sicurezza e la tutela della donna che avrebbe portato avanti la gravidanza per loro era una condizione necessaria, che poi lei aveva detto loro mille volte che sapeva esattamente che cosa stava facendo, che aveva scelto di farlo.
«Finché Achille non è tra le vostre braccia, io non sono tranquilla, ci ha detto non so quante volte – aggiungono -. Così come sapeva che cosa stava facendo, sapeva che stava facendo un bambino che non sarebbe stato suo e che l’avrebbe dato a una coppia che l’avrebbe amato molto».
Questa è forse la più comune e paternalistica delle fallacie: la convinzione che nessuna donna possa davvero scegliere di fare un figlio per qualcun altro, la credenza che sia necessario vietare per difendere le donne da loro stesse, da quello che sarebbe necessariamente e intrinsecamente un abuso. La seconda fallacia più comune è forse il passaggio da «io non lo farei» a «nessuno dovrebbe farlo mai perché nessuno può davvero volerlo ( perché non lo voglio io)». Quasi nessuno si chiede, in una storia come questa, chi sarebbe stato danneggiato. A chi non vuole ascoltare non basteranno mille storie né mille argomenti, e continuerà a pensare che ci sia sempre uno sfruttamento o a fare domande poco sensate e a condannare senza capire.
«Qualche giorno fa abbiamo letto i commenti sotto a un articolo. Come spesso succede – mica solo riguardo alla maternità surrogata – quasi tutti si fermano al titolo, gli altri sembrano ripetere presunte obiezioni senza pensare, alcuni poi scrivono proprio cose fantasiose, come ‘ perché non prendere in adozione dei bambini che rischiano di essere soppressi?!’».
Evelina e Michele sono però sorpresi dalle reazioni positive di molti, anche da parte di chi non te lo aspetti, perché magari molto conservatore o perché in passato aveva espresso condanne e anatemi. Certo, hanno un complice formidabile: «Achille è veramente un ruffiano e quando andiamo al ristorante diventiamo amici di tutte le cameriere del locale; stessa cosa quando usciamo o siamo in giro. Per il nostro anniversario, poco prima del Congresso dell’Associazione Luca Coscioni, abbiamo passato qualche giorno in Trentino, in albergo, per festeggiare. Siamo felici, siamo felici veramente».