«Non ho parole», dice laconicamente Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto ( Kr). Che martedì si è vista rigettare il ricorso contro la sentenza di incandidabilità pronunciata a maggio dal tribunale di Crotone e confermata dalla Corte d’Appello di Catanzaro, che ha bocciato il percorso amministrativo di quella che, un tempo, era un’icona dell’antimafia.

Ovvero fino al 3 dicembre 2013, quando i finanzieri le notificarono un provvedimento di arresti domiciliari emesso dal gip distrettuale Abigail Mellace per lei e il marito, scarcerati dopo 155 giorni. Una vicenda che si chiuse a settembre 2015 con un’assoluzione perché il fatto non sussiste, ma la battaglia contro quel pezzo di Stato che la vede intrallazzata con i clan di ‘ ndrangheta non è finita. Mentre attende la sentenza d’appello, quella che ha interrotto la sua avventura politica è già arrivata. Glaciale e inaspettata, lascia intendere Girasole, convinta ad andare fino in fondo alla questione.

L’ex sindaco parla di una «forzatura», perché lei nella richiesta di incandidabilità avanzata dal ministro dell’Interno non ci è mai finita. E nemmeno nella relazione di accompagnamento, a riprova, secondo l’ex eroina antimafia, che non ci fosse motivo per farlo. Il suo nome appare infatti soltanto dopo, nella richiesta di costituzione dell’Avvocatura dello Stato, alla quale i legali della Girasole contestano un difetto di legittimità. «L’indicazione nominativa avrebbe dovuto essere contenuta nella proposta di scioglimento con la specificazione delle condotte determinanti l’incandidabilità», si legge nel ricorso, dove viene citato il comma 11 dell’articolo 143 del testo unico degli enti locali. Ma l’ex sindaco ricorda soprattutto che le accuse di collusione con la ‘ ndrangheta, per i giudici che l’hanno assolta, erano inconsistenti, rivendicando «la corretta gestione dei beni confiscati». Secondo la Dda, Girasole avrebbe «ricevuto il sostegno elettorale della famiglia Arena», teorema costruito ascoltando in cuffia gli uomini del clan, che sostenevano di aver raccolto voti «facendo favori ai cristiani». E per l’accusa, la condotta votata alla legalità mantenuta dal sindaco era mera apparenza, sostenuta da quella celebrazione mediatica che, assieme alle numerose intimidazioni subite, aveva fatto di lei un’eroina. Quella tesi, secondo la sentenza, si dimostrò «infondata» : la Girasole, come emerso dalle intercettazioni, era considerata dal clan un’acerrima nemica, tanto da architettare un piano per far cadere la sua amministrazione. Ma i giudici parlano anche di errori grossolani, come nel caso della conversazione in cui Pasquale Arena parla non di mille “voti” ( come trascritto nei brogliacci) «ma di “350” volte in cui si sarebbe adoperato, sostenendo la candidatura per l’elezione non della Girasole, ma di altro personaggio politico». Una sentenza che non piacque al pm Domenico Guarascio, che nel suo atto d’appello parlò di prove ignorate, travisate e sminuite.

Ma secondo i giudici che hanno decretato l’incandidabilità, ci sarebbe continuità tra l’ultima amministrazione in carica, guidata da Gianluca Bruno, a maggioranza centrodestra, sciolta per infiltrazioni mafiose e la gestione della Girasole, ex Pd, rieletta con la carica di consigliere. L’ex sindaca ha querelato la commissione d’accesso agli atti, per vie delle «gravissime affermazioni» contenute nella relazione che ha portato allo scioglimento, «gravemente lesive» del suo nome e «assolutamente non rispondenti alla realtà dei fatti». Querela della quale, ad oggi, non si hanno notizie e che non ha inficiato il percorso che ha portato alla sua incandidabilità. A partire dal dubbio sollevato circa l’assenza del suo nome nella relazione del ministro. «L’atto introduttivo del giudizio - si legge nella sentenza non è soggetto a requisiti rigidi di forma». E anche sull’assoluzione i giudici sorvolano: «non si richiede necessariamente la prova di comportamenti idonei a determinare la responsabilità personale, anche penale, degli amministratori», ma bastano anche elementi al di sotto di quel limite che consente l’azione penale, purché siano «concreti, univoci e rilevanti» nell’indicare un rischio di condizionamento. E nonostante l’odio nei suoi confronti da parte del clan, questi elementi di sospetto, per chi ne ha decretato l’incandidabilità, ci sono. Tanto da definire la gestione della cosa pubblica asservita «a finalità criminali espresse nel favor verso la cosca Arena, sostanziatesi nell’assegnazione di appalti e servizi in un’opera di legittimazione del crimine».