Per quali astruse ragioni un brillante fisico-divulgatore come Carlo Rovelli sente il bisogno di lanciare palle di fango su Enrico Fermi, una delle più grandi menti del secolo scorso?

In un video pubblicato sul sito del Corriere della Sera Rovelli lo descrive come un bieco opportunista, iscritto al Partito nazionale fascista per ottenere i fondi necessari alle sue ricerche e quindi connivente con il regime, un uomo privo di etica personale, addirittura responsabile morale dell’apocalisse atomica di Hiroshima e Nagasaki per aver partecipato al progetto Manhattan. È un ritratto grottesco che ti aspetti da uno youtuber in cerca di visibilità o da qualche paginetta social senza arte né parte, non da uno stimato accademico come Rovelli. Che sarà anche un personaggio vanitoso come emerge dalle sue copiose apparizioni televisive (spesso su temi di politica internazionale non propèrio di sua stretta competenza), ma resta comunque un fisico di valore.

Basterebbe la biografia di Fermi per replicare alle accuse puerili che gli sono state rivolte. Se opportunismo significa accettare fondi statali negli anni Trenta, allora erano opportunisti tutti i ricercatori italiani: non esisteva altra via per lavorare, specialmente nel campo delle scienze applicate che hanno bisogno di ingenti risorse. Non c’erano finanziamenti privati, non esistevano fondazioni indipendenti; il regime concedeva fondi perché il progresso scientifico faceva comodo alla sua propaganda: i fisici dovevano decidere se usarli o smettere di esercitare il proprio lavoro. Fermi scelse la prima strada, con l’unica ossessione che lo animava: lo studio e la ricerca. Non era un militante fascista, non era un cortigiano del potere, non era il “genio in camicia nera” o una mascotte del ventennio. Quando nel 1938 gli viene conferito il Nobel a Stoccolma, Fermi ne approfitta per lasciare l’Italia mussoliniana e trasferirsi negli Stati Uniti; la moglie Laura era di famiglia ebraica e perseguitata dalle leggi razziali, altro che complicità con il regime.

Nato a Roma nel 1901, Enrico è il solo italiano ad aver lasciato un’impronta così vasta nella scienza del Novecento da meritare che il suo nome finisca nella tavola periodica, con l’elemento 100, il “fermio”.

Nato a Roma nel 1901, cresce in un’Italia che conosce appena i primi vagiti della fisica moderna in un clima di crescente positivismo. È un talento precoce, capace di afferrare concetti difficili con grande naturalezza ma anche predisposto per organizzare gruppi di ricerca. Nel 1926 formula la statistica che porta il suo nome, la Fermi-Dirac, che descrive il comportamento delle particelle dotate di spin semi-intero: elettroni, protoni, neutroni. È la base della fisica dello stato solido, senza la quale non esisterebbero semiconduttori e quindi centinaia di dispositivi elettronici che fanno parte della nostra vita quotidiana come computer, telefoni cellulari, fibre ottiche. Negli anni Trenta, attorno a Fermi si forma nella capitale il celebre gruppo di via Panisperna: Amaldi, Rasetti, Segrè, Majorana. Con loro esplora il comportamento dei neutroni rallentati, scoprendo che diventano molto più efficaci nel penetrare i nuclei. È l’inizio della fisica nucleare. Da lì scaturiranno le centrali elettriche, la medicina diagnostica con isotopi radioattivi, la radioterapia.

Fermi non si limita a una grande idea: sviluppa anche un modello teorico dei decadimenti beta, quelli che trasformano un neutrone in un protone con emissione di un elettrone e di una particella misteriosa praticamente priva di massa che lui stesso battezza “neutrino”. All’epoca nessuno l’ha mai osservato, e molti dubitano che esista davvero. Oggi sappiamo che il neutrino è tra i protagonisti invisibili dell’universo, studiarlo ci ha portato a capire come funzionano le stelle e i supernovae. Negli Stati Uniti diventa uno dei pilastri del Progetto Manhattan e questo non si può negare: Fermi assieme ad altri ricercatori contribuisce concretamente alla realizzazione della bomba atomica. Ma è davvero legittimo, ottant’anni dopo, immaginare che potesse rifiutarsi e tornarsene a casa come se niente fosse? Siamo nel pieno della Seconda guerra mondiale, il Terzo Reich di Hitler e i valenti scienziati nazisti lavorano anch’essi sull’atomo e sono spaventosamente vicini alla bomba. È una corsa spasmodica, in ballo c’è la sopravvivenza della democrazia e della nostra stessa civiltà. La dissociazione postuma di Rovelli per i tragici effetti dell’arma nucleare è esercizio di moralismo risibile e non di Storia. Del resto, dopo la guerra, Fermi è tra gli scienziati più scettici sull’arma all’idrogeno, opponendosi assieme ad Openheimer all’”ordigno super” progettato da Edward Teller che definisce come «uno strumento di genocidio e di annientamento di massa».

Nel 1942, sotto le gradinate di un campo da football a Chicago, Fermi realizza la “Chicago Pile-1”, il primo reattore nucleare a catena controllata. È un momento spartiacque: l’umanità passa dal dominio teorico sull’atomo al controllo pratico dell’energia nucleare. Dopo la guerra si tuffa ancora nella fisica delle particelle, contribuisce alla comprensione dei mesoni, raffina i modelli di interazione nucleare, prepara il terreno per quella che sarà chiamata “fisica delle alte energie”. Ogni volta procede con lo stesso metodo: calcoli rigorosi, esperimenti essenziali, risultati che parlano da soli.

E infine ci sono i suoi “errori”, sottolineati con acidità nel video di Rovelli chissà a voler dimostrare cosa. Fermi crede di aver prodotto nuovi elementi, invece stava osservando la fissione. Propone modelli incompleti, che però altri svilupperanno. Ed è proprio in questo modo che funziona la scienza: a differenza della metafisica e della religione è “falsificabile” perché non riposa su dogmi eterni ma su calcoli ed esperimenti in continua evoluzione con i risultati successivi che correggono o smentiscono i precedenti. Se si giudicasse ogni scienziato con il metro degli errori che ha commesso, non resterebbe nessuno in piedi.

Chi invece pretende da farlo sulla base di una morale post-datata allo scopo di ottenere un po’ di celebrità rischia soltanto di coprirsi di ridicolo.