Non è un morbo solo italiano ma è nella penisola che il contagio ha raggiunto la espansione, non risparmiando né il colto né l'inclita, e soprattutto un livello di pervasività inaudito, che abbraccia uno dopo l'altro tutti gli aspetti della storia repubblicana, ormai neppure più recente. S'intende l'abitudine diffusa a sospettare trame oscure dietro ogni fatto saliente, specialmente se tragico, della nostra storia, a ipotizzare connessioni oscure, subodorare fili invisibili impugnati da registi occulti, a scovare una logica nascosta ma inesorabile che tiene insieme fatti ed episodi disparati. Una trama. Un complotto. Un ordine nel quale ' tutto si tiene'.

La discutibile puntata di Report di qualche tempo fa nella quale venivano cucite insieme ipotesi e “rivelazioni” sino a formare un armonioso pur se fantasioso ordito è l'ultimo episodio, in ordine di tempo, di una serie enciclopedica, infinita, che si arricchisce ogni giorno di più. È il grande libro della dietrologia, la cui missione è sempre la stessa: dimostrare che quel che si vede è sempre falso, il disordine, la caoticità, persino le scelte, sono il paravento dietro il quale si celano le manovre astute e gelide di qualche cupola perversa. A questa piovra non sfugge nulla: terrorismo, criminalità organizzata, politica, affarismo, servizi segreti. Tutti collegati da fili invisibili ma saldissimi.

La dietrologia ha i suoi capisaldi, i capitoli che tornano puntualmente in ballo. Il sequestro Moro. La strage di Bologna, con annessi e connessi. La P2. La trattativa Stato- mafia. Su questo telaio ci si può poi sbizzarrire sino ad abbracciare l'intero corso della Repubblica. La sconfitta del Pci negli anni ' 70, provocata dalla manina che guidò il sequestro Moro. La svolta degli anni '80, indirizzata dalle trame dell'immancabile Licio, 'il Venerabile'. La vittoria di Berlusconi, sullo sfondo della quale si stagliano sinistre le cosche. La genealogia di quella che si configura ormai come psicosi, delirio nel quale il “mi sa tanto” sostituisce i fatti, il sospetto s'impone come verità, è più complessa e va rintracciata in diversi affluenti.

L'origine probabilmente è una pietra miliare in sé meritoria. Subito dopo la strage del 12 dicembre 1969 a Milano, con gli inquirenti decisi a battere una sola pista, quella anarchica, un gruppo di avvocati e militanti diede alle stampe, in tempi record, un libretto destinato a restare a propria volta nella storia: La strage di Stato. Frutto di una contro- indagine giocoforza sbrigativa aveva il merito di denunciare le falsificazioni dell'inchiesta ufficiale e di indicare una pista che si sarebbe poi dimostrata fondata, quella del neofascismo e delle collusioni di quell'ambiente con i servizi segreti. Il risultato fu però diffondere una interpretazione sostanzialmente falsa, nella quale lo Stato, agli occhi di molti, figurava direttamente come organizzatore e mandante.

L'intellettuale forse più esemplare dell'epoca, Pier Paolo Pasolini, coronò la tendenza con un articolo ancora oggi sempre citato e quasi sempre a sproposito  “Io so”. L'articolo mirava in realtà a difendere i neofascisti dalla strage del 1974 a Brescia, organizzata, come quella di 5 anni prima a Milano, sempre dallo Stato, stavolta per bastonare una destra estrema già adoperata in precedenza contro la sinistra. Nel merito, il famoso pezzo di PPP non coglieva nel segno, essendo la matrice della strage di piazza della Loggia invece effettivamente di estrema destra. Ma soprattutto sdoganava un metodo: la sostituzione della realtà dimostrata con le proprie “intuizioni”, i sospetti, le paranoie. “Io so anche se non ho le prove” è ancora oggi il motto di un'intera e folta scuola.

Nel 1979 il giudice di Padova Guido Calogero ipotizzò una trama circoscritta al terrorismo di estrema sinistra ma pur sempre diabolica, secondo la quale tutte le diverse sigle della lotta armata di sinistra, ma anche le organizzazioni apparentemente legali come Autonomia, rispondevano in realtà a un'unica centrale. Una cupola che le dirigeva tutte, al vertice della quale era assiso Toni Negri. Il teorema era ridicolo e rovinò in breve tempo (anche se gli imputati rimasero per anni in carcere con imputazioni via via cangianti). Ma l'immagine del ' grande vecchio' restò incisa a fondo nell'immaginario degli italiani, non limitata però alla guerriglia rossa ma ampliata fino a ipotizzare un puparo capace di ordire trame a tutto campo, senza risparmiare neppure gli interstizi della storia patria.

Era un'immagine sinistra e spettrale, ancora senza volto. I connotati del burattinaio arrivarono però a stretto giro, quando, il 17 marzo 1981, le forze dell'ordine sequestrarono a Castiglion Fibocchi gli elenchi degli iscritti a una loggia massonica segreta, la P2, guidata da venerabile maestro Licio Gelli. C'era di tutto e di più. Affaristi, politici, soprattutto dirigenti dei servizi segreti. Impossibile immaginare qualcosa che si prestasse meglio alla leggenda di una piovra i cui tentacoli arrivavano ovunque e si annidavano dietro ogni mistero, vero o presunto.

Uno in particolare: il sequestro Moro, modello di ogni dietrologia, sagra delle supposizioni, delle illazioni, delle calunnie. Inutili le testimonianze, le sentenze, le prove. Per la vasta massa degli italiani il sequestro Moro resterà sempre una manovra ordita dai pupazzi di Gelli in combutta con i servizi segreti a stelle e strisce per impedire la democratica marcia del Pci verso il governo. Un complotto di quelli che determinano il corso dell'intera storia di un Paese. Impareggiabile. Rifinito, cesellato, ampliato a dismisura il modello fissato in quei pochi anni non è poi cambiato nella sostanza. Ma ogni narrazione ha bisogno dei suoi personaggi di nomi e cognomi intorno ai quali cucire la leggenda nera. È un gruppo corposo ma non foltissimo, nel quale spiccano probabilmente tre nomi. Mario Moretti, l'uomo che guidava le Br nei 55 giorni del sequestro Moro è forse la figura più calunniata d'Italia.

Non solo non esiste il pur minimo indizio che autorizzi a sospettare un ruolo diverso da quello che lui stesso ha sempre riconosciuto ma il solo fatto che sia in carcere da quasi 40 anni, unico tra i partecipanti all'agguato di via Fani e alla gestione del sequestro che ancora debba tornare in cella la notte, dovrebbe sgombrare il campo da ogni dubbio. Il problema è che senza attribuire un ruolo diretto nel complotto a Moretti diventa impossibile ipotizzare qualsiasi regia torbida della vicenda. Di fronte a tanta superiore necessità la realtà deve rassegnarsi al passo indietro.

Il secondo nome è Valerio Fioravanti. Il tentativo di farne “il killer della P2” era all'origine della prima ricostruzione della strage di Bologna. Assassino di Pecorelli, di Piersanti Mattarella, stragista in conto terzi. Il fatto che non abbia mai neppure visto da lontano Gelli e che, a differenza, di altri militanti dei Nar fosse contrario alle commistioni con la criminalità impallidisce di fronte all'obbligo di farne il perno di una strategia complessa, della Bologna sarebbe stato solo il tassello più sanguinoso. Solo che Fioravanti è stato condannato sì per Bologna, con una sentenza tanto discutibile quanto effettivamente discussa, ma è stato assolto per gli altri omicidi. Di qui la necessità di azzardare ogni equilibrismo pur di ricollegarlo all'assassinio di Mattarella. Su Gelli non c'è bisogno di diffondersi. Dalla liberazione di Valerio Borghese al golpe tentato dallo stesso, dal sequestro Moro alla strage di Bologna non c'è un crimine circondato dalle tenebre che non porti la sua firma, alla faccia delle sentenze. Diabolik gli spiccia casa.

Bisogna intendersi. Trame oscure nella storia italiana ce ne sono state davvero, dall'assassinio di Mattei a quelli di Sindona e Calvi. La pretesa titanica della misteriologia è però un'altra: da un lato estendere le trame a ogni vicenda, dall'altro e soprattutto, collegarle tutte fra loro in una gigantesca cattedrale delle manovre oscure. In fondo era quello che faceva già il vero testo base di ogni dietrologia: I protocolli dei savi di Sion.