L’ultima parola detta ai ragazzi con cui aveva condiviso due anni e mezzo di vita è stata «scusa». Non ha aggiunto altro Jerry Prince prima di buttarsi sotto un treno lunedì scorso, a soli 25 anni, devastato da quel rifiuto di concedergli il permesso di soggiorno per motivi umanitari, non più previsto dal decreto sicurezza. Ha preferito la morte piuttosto che tornare nel suo Paese, la Nigeria, che aveva lasciato nel 2016, approdando in Sicilia su un barcone, con la speranza di cambiare vita.

Aveva una laurea in chimica e studiava per convalidare anche in Italia quel titolo che aveva conseguito nel suo Paese. L’aveva trovata, alla fine, a Genova quella vita, 1300 chilometri distante dal punto in cui quel barcone lo aveva lasciato. Ma non è bastato a farlo sentire al sicuro. Il primo a dare notizia della sua morte è stato monsignor Giacomo Martino, responsabile della Migrantes di Genova, in un messaggio inviato alla chat dei propri parrocchiani. Un messaggio che doveva Per paura delle strumentalizzazioni, del pericolo che qualcuno potesse utilizzare la morte di Jerry per far propaganda. E rimane in silenzio, a poche ore dal funerale, deciso a raccontare nel luogo giusto la storia di Jerry. «Domani ( oggi, ndr) al funerale dirò chi era Prince e tenterò di rendergli il giusto onore», dice laconico al Dubbio.

Ma a parlare per lui è stato quel messaggio indirizzato alla comunità parrocchiale, che ha superato i limiti del sagrato, rimbalzando sui social e raggiungendo, in poco tempo, tutto lo Stivale. «Erano parole di dolore e di sofferenza personale rimanere privato, limitato al gruppo ristretto dei fedeli della sua chiesa, che rapidamente, però, ha preso a circolare sui social. La scelta di Jerry è stata una scelta disperata, dettata dall’incapacità di accettare quel diniego, arrivato il 17 dicembre scorso, che lo avrebbe costretto a ripartire, a portare il nastro indietro di quasi tre anni. Quel no ancorato alla realtà con carta bollata ha spezzato quel sorriso contagioso, diventato virale dopo la sua morte e catturato da una foto che lo vede stringere al petto il libro di chimica, regalatogli dai volontari della cooperativa che lo ha accolto. Don Giacomo, il prete più volte minacciato per aver aperto la chiesa ai migranti, questa storia non avrebbe voluto raccontarla. confidate a degli amici - afferma don Giacomo - Avevo scelto di non parlare di Prince Jerry per rispettare il dolore della sua morte e desolazione. Vi sono indagini giudiziarie che stanno stabilendo esattamente i fatti ed eventuali responsabilità. Non desidero in nessun modo che questo ragazzo e la sua triste storia vengano strumentalizzate per discorsi diversi da quelli di compassione per una vita stroncata e di un lungo sogno interrotto». Toccherà a lui, oggi, celebrare il funerale del ragazzo, nella Chiesa dell'Annunziata, «dove, come cristiano, lo saluteremo affidando il suo sogno al Dio che sogna con noi, al Dio che rende reali i nostri sogni così come farà con quelli di Prince, per sempre». Il giovane sarà seppellito nel cimitero di Coronata, a Genova, dove il parroco ha invitato tutti ad essere presenti, come «segno dell’ultimo abbraccio terreno a questa vita così desolata». I suoi sogni e le sue speranze, ha aggiunto don Giacomo, «sono finite sotto quel treno». Jerry era nato a Benin City e faceva il volontario in diverse associazioni di aiuto ai migranti e senzatetto di Genova, con i ragazzi delle Scuole della Pace e per iniziative come lo Staccapanni della Caritas. Aveva avuto tre borse lavoro ed era stato accompagnatore e volontario per la scuola della pace a Sant’Egidio. Era seguito dalla Comunità Migrantes di Coronata ed ospitato nel centro di accoglienza di Multedo. Mercoledì la polizia di Tortona, dove è avvenuta la tragedia, ha contattato don Giacomo, avvisandolo che su quei binari, forse, c’era uno dei suoi ragazzi. È toccato a lui riconoscerlo. Un ragazzo speciale e straordinario, dice ora il parroco, un giovane sensibile e colto, che amava studiare. Non scappava dalla guerra, ma da un avvenire che vedeva fatto di povertà e miseria, senza prospettive. Lo cercava in Italia, come ha spiegato davanti ad una commissione prefettizia alla quale è toccato analizzare il suo caso. Lì, seduto di fronte ai giudici del suo destino, è arrivato con in mano quel libro di chimica in lingua inglese che rappresentava il suo passaporto per il futuro. Ha chiesto di poter restare sfruttando il suo italiano fluente, che aveva affinato in di due anni e mezzo di integrazione. Ma per quella commissione la sua richiesta era irricevibile. Fino allo scorso anno, prima dell’entrata in vigore del decreto sicurezza, il suo caso sarebbe stato, con molta probabilità, risolto con un permesso di soggiorno per motivi umanitari e una stretta di mano. Ma oggi, per lui, le porte erano chiuse. Dopo il diniego, Jerry aveva smesso di sorridere, di parlare. I suoi amici lo cercavano da qualche giorno ed erano riusciti a parlare con lui proprio poco prima della tragedia, per ricordargli di un appuntamento. Una telefonata in cui il chimico ha pronunciato soltanto quella parola, “scusa”, che forse i suoi interlocutori hanno sottovalutato. E così al pranzo nella casa della Migrantes, dove lo aspettavano lunedì, non si è mai presentato. Nessuno aveva capito che quella voce rotta voleva dire addio.

La morte di Jerry è stato lo spunto per l’ennesima polemica politica. Proprio quella che don Giacomo, sottraendosi ai giornalisti, voleva evitare, ma che è apparsa inevitabile, rendendo il caso di questo giovane un emblema. «Apprendiamo con sgomento la notizia della tragica morte di un giovane migrante nigeriano che lottava per trovare un futuro migliore – commenta la Cgil Genova -. Rispetto e tristezza sono le emozioni che ci travolgono, ma un pensiero alla responsabilità morale di questa morte è inevitabile. Si tratta della puntuale conseguenza di un decreto sicurezza inumano che ha annullato la possibilità di richiedere e ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari - ha affermato la segreteria della Camera del lavoro di Genova, annunciando la presenza ai funerali - Un decreto che la Camera del Lavoro di Genova non smetterà mai di contrastare».