Nel 1894, quando ha inizio il caso Dreyfus, attraverso il casuale ritrovamento in un cestino dei rifiuti da parte di una addetta alle pulizie – che poi alcuni dissero essere membro del controspionaggio – di un bordereau contenente rivelazioni militari destinate agli odiati tedeschi, Emile Zola, scrittore già molto conosciuto e molto apprezzato in tutta Europa, si trova a Roma.

Fa ritorno in Francia solo alla fine dell’anno ed è perciò naturale che non abbia avuto notizia sufficiente di quanto accaduto durante il suo soggiorno italiano. Ecco perché il primo intervento giornalistico di Zola, qui pubblicato, si colloca soltanto nel novembre del 1897, quando già le prime parti del dramma sono state abbondantemente consumate. Sulla scorta di quel documento strumentalmente attribuito a Dreyfus, questi viene arrestato nell’ottobre del 1894 e sommariamente giudicato, subendo una condanna che da tutti si esigeva esemplare: degradazione e deportazione perpetua all’Isola del diavolo, nella Caienna francese.

Prove a carico: nessuna. Tuttavia, la durezza della condanna era equivalente ad una condanna a morte che lentamente avrebbe consumato l’innocente Dreyfus, con lo stesso scorrere delle ore e dei giorni e, per giunta, sostenuta dalla esecrazione generale per il colpevole di un crimine così nefando. Un vero orrore. Ecco dunque che sul finire del 1897, Zola non può fare a meno di constatare che il vicepresidente del Senato Auguste Scheurer- Kestner, uomo probo e di cui tesse le lodi, è roso dal dubbio che Dreyfus possa essere innocente e che, poi, avendo egli conosciuto meglio i profili giudiziari del caso, di questa innocenza abbia raggiunto la certezza. Ragion per cui, scrive Zola: «Conosce la verità e ora deve fare giustizia».

Scheurer- Kestner è un chimico, un industriale di successo, fiero oppositore di Napoleone III, di origine alsaziana, politico di razza.

Ciò basta a mettere in chiaro due aspetti rilevanti. Innanzitutto, che non occorre essere giuristi professionisti per capire quando si metta in opera una persecuzione giudiziaria, destinata a sacrificare una vittima – allo scopo di garantire la minacciata coesione sociale – invece che a realizzare la giustizia. Scheurer- Kestner lo capisce semplicemente ascoltando senza pregiudizi il racconto a lui fatto dal fratello di Dreyfus, Mathieu, e dalla moglie, Lucie Hadamard: basta un po’ di normale buon senso.

Inoltre, va notato che è proprio lui, in prima battuta, a subire lo spostamento mimetico proprio di ogni persecuzione. Infatti, su di lui – alsaziano come Dreyfus - cadono, in questo momento, gli strali dei benpensanti, di quelli che sono certi, certissimi della colpevolezza di Dreyfus, ma che ovviamente si rifiutano ostinatamente di pensare, ritenendo il pensiero e il suo esercizio compiti che possono bene essere affidati ad altri, incaricati di pensare per tutti.

Qualche anno dopo, un altro vero intellettuale, Karl Kraus, scrivendo dal cuore profondo dell’Europa, la regale Vienna, l’avrebbe icasticamente chiarito nei suoi Detti e contraddetti: «Tutta la vita dello Stato e della società è fondata sul tacito presupposto che l’uomo non pensi. Una testa che non si offra in qualsiasi situazione come un capace spazio vuoto non avrà vita facile nel mondo».

E dunque, nel bel mezzo di milioni di individui dalla testa vuota che intendono custodire la facilità della propria vita, Scheurer- Kestner preferisce avere una vita difficile, pur di pensare; e, pensando, non può evitare di dire la verità e cioè che Dreyfus è stato condannato da perfetto innocente.

Zola viene attratto proprio da questo aspetto e perciò, senza ancora voler trattare esplicitamente dell’affaire, assume le difese dell’uomo politico, in vario modo sospettato, accusato dagli anti- dreyfusard di demenza senile e perfino di essersi fatto comprare dagli ebrei che avrebbero sborsato una bella somma allo scopo.

Follie, assurdità, veleni contro la ragione dettati da un becero antisemitismo e da un nazionalismo cieco, grida Zola.

Questi, dal canto suo, non è certo nuovo ad assumere posizioni oppositive. Basti pensare a quando, nel 1866, appena ventiseienne, ancora squattrinato, ma incaricato da parte del quotidiano L’Evénement – di proprietà del celebre Le Figaro – di seguire le mostre pittoriche del Salon parigino, stronca letteralmente la paludata giuria dell’esposizione, prigioniera di vetusti schemi accademici. Egli assume le difese criticamente fondate di coloro che saranno chiamati poi “impressionisti”: Edouard Manet – la cui Colazione sull’erba giudica un capolavoro – Claude Monet, Pisarro e Cèzanne, di cui diviene grande amico. Si attira così le ire dei benpensanti, di coloro che preferivano la pittura manieristica e odiavano le opalescenze impressionistiche come traviamenti dell’anima e della mente.

Ma Zola non cede. Risultato: l’editore, travolto dalle polemiche, è costretto a sospendere la rubrica tenuta da Zola e questi resta disoccupato e senza un soldo. È appena il caso di ricordare che la storia si assumerà il compito di consacrare definitivamente gli impressionisti, difesi da Zola, seppellendo nell’oblio i suoi critici. Ecco perchè lo scrittore sa bene – quando prende le difese di Scheurer- Kestner - che dire la verità esige sempre un prezzo, a volte molto alto. Ma sa anche che – come recita la chiusa di questo articolo – «la verità è in cammino e niente la potrà fermare».