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Dai dati forniti dal Dap risulta che in carcere, al 31 dicembre 2016, ci sono 12191 detenuti per furto ( 7917 italiani e 4274 stranieri), dei quali 9589 condannati, mentre quelli reclusi per rapina sono 16765 ( 12344 italiani e 4421 stranieri), con 11920 condannati. Va considerato, chiaramente, che ci sono anche le persone che vengono prosciolte perché innocenti e altre che non sono messe in libertà, ma ai domiciliari o affidati ai servizi sociali per la messa alla prova. La maggioranza, quindi, rimane in carcere.
Da qualche giorno su alcuni quotidiani sta prendendo piede una tesi secondo la quale ci sarebbe un boom di scarcerazioni dovuto dallo “svuotacarceri”. In particolar modo, in un articolo di Repubblica, si fa riferimento ai condannati per rapine e furti nelle abitazioni che non rimangono in carcere quanto dovrebbero. Ancora una volta si invoca mancata certezza della pena. In realtà i fatti sono diversi. In questi anni, grazie anche al lavoro di giuristi, associazioni come Antigone e movimenti e partiti politici, con i Radicali in testa, ha preso sempre più piede l’idea che il carcere non è sempre la soluzione per punire e riabilitare chi sbaglia nella vita. Per questo motivo i legislatori hanno studiato delle leggi che puntano alle misure alternative, esecuzioni penali esterne, lavoro di pubblica utilità e messa alla prova.
Il decreto “svuotacarceri”, diventato legge nel febbraio 2014 è stato un provvedimento che puntava a sfoltire la presenza nelle carceri, in virtù di alcune misure che prevedono sconti di pena, incremento dell’uso del braccialetto elettronico e innovazioni relative all’affidamento in prova ai servizi sociali. Uno solo dei provvedimenti adottati ha avuto caratteristica eccezionale: si tratta del provvedimento di “liberazione anticipata speciale” che per cinque anni ha aumentato la riduzione discrezionale – secondo parametri normativamente definiti – della sentenza residua per ogni semestre di comportamento detentivo di positiva adesione al programma trattamentale, portandola da 45 a 75 giorni. Il provvedimento è stato previsto solo per il quinquennio 2010 – 2015, in funzione chiaramente deflattiva. L’introduzione più rilevante – che prima riguardava solamente i detenuti minorenni - è l’istituto giuridico della sospensione del procedimento penale con messa alla prova per gli adulti. La sua introduzione nell’ambito penale degli adulti ha effetti sull’espansione del sistema penale esterno e rafforza di contenuto rieducativo l’esecuzione delle misure non detentive e di comunità richiedendo, alla persona alla quale viene concesso, di aderire a un progetto, che può includere lavori di pubblica utilità e azioni di riparazione del danno commesso o a favore della vittima. Se negli ultimi tre anni in ambito minorile le cifre dei casi di sospensione del procedimento penale con messa alla prova non hanno subito grandi variazioni oscillando di poche centinaia tra un anno e l’altro ( al 31 dicembre 2016 si contavano 3.581 casi contro i 3.340 dell’anno precedente), la portata della diffusione dell’utilizzo del recente istituto giuridico diventa palese nell’ambito degli adulti: l’incremento dei casi di sospensione del procedimento è particolarmente importante, dai dati messi a disposizione dal ministero della Giustizia si passa da 511 nel 2014 a 9598 al 31 marzo di quest’anno. Al 31 dicembre 2016, sempre secondo via Arenula, sono 12811 i detenuti in affidamento in prova, 756 in semilibertà e 9857 ai domiciliari.
Come ha illustrato recentemente il garante nazionale Mauro Palma nella sua relazione annuale, l’introduzione di istituti giuridici diversi dalla reclusione «permette di superare l’impraticabilità di fatto dell’osservazione scientifica della persona all’interno del carcere e il rischio di produrre un mero “alloggiamento” di persone delle quali non è possibile prevedere un trattamento individualizzato perché spesso sconosciute agli operatori penitenziari». Diverse ricerche hanno dimostrato che attraverso un percorso diverso, soprattutto con l’esecuzione penale esterna, si ha un’importante riduzione della recidiva. Tradotto vuol dire più sicurezza per i cittadini.
Andando sullo specifico, ovvero sulla percezione che chi fa rapine non finisce in galera, prendiamo in esame i dati generali, forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 dicembre 2016 dai quali risulta che in carcere ci sono 12191 detenuti per furto ( 7917 italiani e 4274 stranieri), dei quali 9589 condannati, mentre quelli reclusi per rapina sono 16765 ( 12344 italiani e 4421 stranieri), con 11920 condannati. Va considerato, chiaramente, che ci sono anche le persone che vengono prosciolte perché innocenti e altre che non sono messe in libertà, ma ai domiciliari o affidati ai servizi sociali per la messa alla prova. La maggioranza, quindi, degli arrestati rimane in carcere. Il vero allarme è che si utilizza ancora troppo poco l’affidamento in prova visto che viene concessa quando c’è una situazione familiare e lavorativa idonea a supportare questa ultima fase dell’esecuzione della pena. Sono misure necessarie anche per contenere l’evidente trend di crescita del sovraffollamento carcerario. Anche l’ultimo dato del Dap, aggiornato al 31 marzo conferma la crescita del tasso di detenzione: 56.289 reclusi su – senza considerare le celle inagibili che si stimano intorno alle 5000 - una capienza massima di 50.177 posti.
La certezza della pena, costituzionalmente riconosciuta, si confonde molto spesso con la certezza del carcere. Dal 1975 il nostro Ordinamento penitenziario prevede che il magistrato di Sorveglianza possa modificare la pena stabilita dal giudice della cognizione, se questo serve alla rieducazione come impone la Costituzione, e ciò soprattutto nella parte finale dell’espiazione, attraverso le misure alternative. Molto spesso l’informazione, dove ci specula gran parte della politica, fornisce percezioni errate. Le misure alternative costituiscono una modalità diversa di espiare la pena, non è assolutamente libertà piena.
Prendiamo in esame la semilibertà. Significa esattamente che la persona detenuta sta in carcere di notte e di giorno esce a lavorare. Non una libertà totale quindi, ma una semi- libertà e una persona ha un lavoro, a un certo punto della pena può esserle concesso di esercitarlo fuori dal carcere, ma sotto controllo, con grosse e giuste limitazioni, e se viola le prescrizioni può essergli revocata la misura; quindi egli è ancora completamente all’interno della struttura penitenziaria, salvo la possibilità di uscire per alcune ore e solo per lavorare. Questo è di uno dei maggiori fattori di rieducazione: attraverso il lavoro una persona comincia a risocializzare con gli altri, a guadagnare lecitamente, ad apprendere un mestiere.
Prendiamo in esame una seconda misura alternativa come la detenzione domiciliare. Si tratta di un beneficio per alcune tipologie di condannati, perché è meglio espiare la pena a casa che in carcere, però comunque ha una forte natura contenitiva e restrittiva, perché il condannato non può uscire per lavorare, non può uscire per portare i bambini a scuola: ha delle restrizioni che comunque gli consentono per il momento di rientrare nella famiglia dove poi dovrà rimanere quando la pena sarà terminata. Quindi un po’ alla volta si abitua al rientro nella società, dove prima o poi dovrà tornare. Ciò non vuol dire non punire ed evitare la certezza della pena, ma riabilitare ed evitare la recidiva per il loro bene e del Paese intero. Ecco perché le misure alternative al carcere dovrebbero essere concesse, senza allarmismi, con più facilità.