Samih sorride sempre, quando ti accoglie dietro al bancone del suo piccolo ristorante romano di kebab. Ma se lo guardi bene dentro agli occhi puoi trovarci il pozzo fondo di tutti gli orrori del mondo. Palestinese del Libano, Samih accetta di raccontare la sua storia mentre i carri armati israeliani stanno per entrare a Gaza.

«Questa non è una nostra guerra», mette subito in chiaro. Dove per nostra significa palestinese. E non può essere loro una guerra scatenata da un gruppo politico-militare-religioso che agisce per conto terzi. «Quando ho visto le immagini del massacro di Hamas ho provato prima di tutto a capirne il motivo e non l'ho trovato. Pochi mesi prima, a luglio, Israele aveva compiuto un massacro a Jenin, nella Cisgiordania controllata da Fatah, e Hamas non aveva detto neanche una parola, si era comportato come se nulla fosse accaduto», ragiona ad alta voce. «Poi un giorno ci svegliamo con queste immagini di guerra grossa senza alcuna spiegazione che non sia l'interesse di un altro Paese: l'Iran». Perché per scatenare una guerra, spiega Samih - ormai cittadino del quartiere popolare di San Lorenzo, un tempo cuore rosso della Capitale - deve esistere «un motivo e un obiettivo politico, economico o militare. Qui nessuno sa per cosa è stata scatenata questa guerra e dove vogliono arrivare con questa guerra. Di certo, ai palestinesi non porterà nulla di buono. Hamas è un gruppo fascista».

Non è uno che parla a caso Samih. Dietro quella barba serafica si nasconde una storia antica, fatta di lutti, vendette reciproche e perdita del «respiro dell'umanità». Nato a Beirut, nel campo profughi di Burj El Barajneh, nel 1967, «l'anno dell'inizio dei problemi», dice scherzando ma non troppo, il cuoco di San Lorenzo cresce come ogni bambino nato in un campo profughi: spesso senza acqua, senza elettricità e senza beni di prima necessità. Le “regole” di convivenza sempre imposte da altri: Hezbollah e la Siria.

A soli 15 anni, nel 1982, viene chiamato insieme ad altri ragazzi per svolgere un “lavoro” nei vicini campi di Sabra e Shatila. Tre giorni prima, i falangisti cristiano-maroniti, col tacito avallo dell'esercito israeliano, hanno commesso una strage: almeno duemila civili palestinesi vengono trucidati inermi. Sono in prevalenza donne, vecchi e bambini. Gli uomini, i combattenti, erano già stati mandati via dal campo da tempo. «Avevo 15 anni e il mio cervello si è fermato davanti a quella visione. Vedi blu, non vedi niente. Dopo tre giorni i cadaveri non sono corpi normali, sono gonfi e c'è un odore impossibile da descrivere». E loro erano stati chiamati lì proprio per questo: bisognava seppellire tutte quelle persone in poco spazio. «Abbiamo scavato fino a tre metri. Per due giorni e mezzo abbiamo disposto corpi a strati: una prima fila, poi terra e poi un'altra fila. E così via».

Ma questo non è il primo incontro col terrore. Due anni prima, nel 1980, «Israele bombarda i gruppi palestinesi a Beirut. Durate una tregua mia madre e mio fratello di 11 anni escono in macchina insieme a due vicini di casa per andare al mercato a comprare della verdura. Ma un missile israeliano colpisce l'auto durante il cessate il fuoco. Era impossibile distinguere la carne dell'uno e la carne dell'altra. Era un cumulo di pezzi umani», racconta. Il papà, militante di Fatah che già a 7 anni gli aveva insegnato a smontare e pulire un kalashnikov in pochi minuti, è costretto a riparare in Tunisia dopo la sconfitta palestinese in Libano. Ma Samih è praticamente già un combattente politico. Il suo avvicinamento al Fronte popolare, formazione marxista palestinese, inizia da bambino, a nove anni. «L'indottrinamento politico comincia a quell'età. E le armi sotto il cuscino spuntano poco dopo».

L'ingresso ufficiale nell'organizzazione avviene a 13 anni, nell'anno in cui perde madre e fratello. «Una militanza fatta di formazione politica e pratica militare quotidiana. Marx veniva presentato come il profeta di una nuova religione. Infallibile, secondo la retorica del Fronte. E per difendere quell'idea bisognava imparare a utilizzare le armi. Tutte: dalla pistola alla contraerei». Il primo conflitto sul campo, in prima linea, a 15 anni, «per i vicoli di Beirut invasa dall'esercito israeliano. I combattimenti sono sanguinosissimi. Dopo 40 anni mi perseguitano le ombre dei morti. Troppi. L'unica consolazione è che abbiamo agito per difesa, per sopravvivere».

Poi l'università in Siria, dove si laurea in filosofia con una tesi su Spinoza, e l'inizio di un nuovo inferno: viene arrestato per motivi politici, da quelle parti i combattenti comunisti non sono “apprezzati”. Resta in carcere per tre anni, tre anni terribili trascorsi a tre piani sotto terra.

Il ritorno in Libano non è semplice. I gruppi religiosi cominciano a farsi strada tra le contraddizioni e le ferite della causa palestinese. «Hamas fino al 1986 non è un gruppo capace di condizionare la vita palestinese. Diventa forte dopo il 1989, con la caduta del muro. È in quel momento che l'Iran decide di finanziare solo i gruppi religiosi. A discapito di Fatah che viveva grazie all'aiuto dell'Unione sovietica. A Teheran serviva un gruppo musulmano sotto il tetto di Israele. Ma sciiti da quelle parti non ce ne sono, non rimaneva che puntare sui sunniti di Hamas, che risponde politicamente a un altro Paese». Per Fatah, che già con la perestroika aveva cominciato a perdere peso, è un colpo durissimo, già certificato dalla sconfitta cocente consumatasi in Libano. Senza più combattenti, ormai dispersi in vari Paesi, il partito di Arafat comincia a richiudersi su se stesso. «Diventa un'organizzazione senza schiena», dice Samih, «e l'unico obiettivo diventa sopravvivere politicamente, non la Palestina». È Hamas il nuovo interlocutore con cui parlare. «Ma chi usa il Corano come arma si comporta come un fascista, è un intollerante che prova a schiacciare la testa al dissenso. Non accettano l'altro. Sono disposti a stringere accordi con altre organizzazioni se ne hanno bisogno, ma quando si sentono forti ti tagliano la testa. Impongono il loro stile di vita. Ti piace il cinema? Non deve piacerti. Ti piace la musica? Non deve piacerti. Ti piace vivere libero? Non devi vivere libero. Ma io ero un combattente politico. Un comunista».

Trasformare la lotta di un popolo in lotta di religione non può portare a nulla di buono. Tanto che ancora oggi Hamas sogna di “buttare a mare” Israele. «Pura propaganda», si inalbera Samih. «Io capisco combattere le politiche del governo israeliano, e le combatterò sempre, ma cosa c'entra il popolo israeliano? Bisogna trovare una soluzione diversa a questo problema. O creare due Stati o uno solo con tutti liberi, senza i militari di Israele. Possiamo vivere sulla stessa terra, possiamo chiamarla come volete. Ma Israele non deve pensare di imporre a tutti la sua visione del mondo, questo sarebbe inaccettabile. Perché se Hamas è fascista, Israele è razzista. E come Hamas usa sempre di più la religione come arma. Ma che responsabilità ha un bambino israeliano davanti a tutto questo? Vuoi buttare a mare pure lui? In nome di cosa? Bisogna usare il cervello». Le responsabilità, semmai, vanno cercate nella classe dirigente, dice il cuoco di San Lorenzo. «Netanyahu è il peggior politico della storia di Israele. Peggio di Sharon che come militare è stato spregevole ma come politico era capace. Netanyahu è un razzista e su questo gli israeliani dovrebbero farsi qualche domanda. Netanyahu vuole imporre al mondo e ai palestinesi l'idea che Israele sia un paese ebreo. È un problema enorme. Siamo nel 2023, non si può sentir parlare di Stati ebrei o musulmani, vogliamo libertà. Prega quello che ti pare, ma non imporre niente a nessuno. Non puoi pensare di essere il rappresentante del “popolo eletto”. E noi altri - musulmani, cristiani, atei - che siamo? Immondizia? Secondo voi è accettabile tutto questo?».

E mentre i carri armati entrano a Gaza, Samih, con gli occhi lucidi, è convinto che in questa guerra «perderemo tutti. Palestinesi e israeliani. Non vincerà nessuno. Il nostro futuro sta morendo sotto i palazzi distrutti di Gaza. Sento dire: “Ci difenderemo”. E poi? “Li ammazzeremo”. E poi? Tutto questo sangue dove arriverà», dice, mostrando al telefono l'immagine di un bambino irriconoscibile ucciso a Gaza un mese fa. Un corpo dilaniato senza più forma e senza distinzione tra ciò che prima stava dentro e ora sta fuori. «È questo che vogliamo? Questo bambino che colpa aveva? Una sola persona al mondo è in grado di spiegarmelo? Perché? Che me ne faccio della lotta per la terra se poi è questo che significa vivere?».

Samih non vuole più vedere cadaveri. Non apre nemmeno i messaggi whatsapp che arrivano sul suo telefonino da Gaza. «So cosa si prova in un campo senza acqua, senza cibo, senza elettricità. L'ho provato sulla mia pelle. Speri di morire sotto un bombardamento perché così finirà tutto, ma se non succede muori ogni giorno cento volte». Ha chiuso con la lotta armata nel 1990 e dal 2000 vive a Roma. «Amo l'Italia. Mi ha fatto innamorare di questo Paese Antonio Gramsci. Quando a 20 anni leggevo i suoi testi mi dicevo: “Se un popolo è capace di esprimere Gramsci deve essere il miglior popolo del mondo”». Samih però ha scelto di non raccontare quasi nulla della sua storia a suo figlio ventenne romano. «Non voglio sporcare il suo cervello come abbiamo fatto col nostro. Questo paese mi ha regalato spazio. Regalo a questo paese questo figlio bellissimo pieno di sogni sani».