Si è costituita a Roma l'Associazione "Sì per la libertà, sì per la giustizia”, allo scopo di sostenere i referendum sulla giustizia, promossi da Lega e Partito Radicale, sui quali i cittadini sono chiamati a votare il 12 giugno. Presidente è Carlo Nordio, vice presidente Bartolomeo Romano, tesoriere Andrea Pruiti Ciarello, componenti Giovanni Guzzetta e Gippy Rubinetti. Facciamo il punto sull'iniziativa proprio con il professor Bartolomeo Romano, ordinario di diritto penale dell'Università di Palermo, già consigliere del Csm dal 2010 al 2014.
Perché è necessario risvegliare l'attenzione sui temi referendari, purtroppo totalmente messi in ombra dalla guerra in Ucraina. Nonostante l’orrore per quanto sta accadendo, dobbiamo comunque occuparci anche dei nostri affari interni, della giustizia in particolare, questione molto delicata che interessa tutti i cittadini, e non solo gli addetti ai lavori.
La bocciatura da parte della Corte costituzionale dei referendum forse più attrattivi - eutanasia, legalizzazione della cannabis, responsabilità diretta dei magistrati - rende più difficile un’ampia partecipazione popolare. Per questo è molto importante spiegare nel modo più semplice e chiaro all'opinione pubblica l'importanza dei quesiti su cui andremo ad esprimerci, facendo capire che la giustizia non è una entità lontana dalle nostre vite quotidiane.
Basterebbe dire che, considerata la nota “vicenda Palamara” e tutti gli scandali che hanno colpito l'attuale Csm, che ha perso diversi membri nell'attuale consiliatura, quasi tutti i quesiti sono legati al tema dell'approccio alla giurisdizione e al controllo dell'operato dei magistrati. Partiamo da quello sulla separazione delle funzioni: la questione discende in maniera lineare dall'introduzione, nel 1989, del processo accusatorio e ancora di più dalla successiva riforma dell'articolo 111 della Costituzione. Quest'ultimo chiaramente importa nel nostro ordinamento l'idea del “processo giusto”, in cui il giudice è terzo e dove pm e difensori sono teoricamente sullo stesso piano. Il passaggio, invece, dalla funzione di pm a giudice e viceversa provoca una commistione tra una parte ( il pm) e chi non è parte ( il giudice), finendo per mettere in un angolo i diritti della difesa.
La custodia cautelare è una vera vergogna del nostro Paese: è inaccettabile, salvo casi eccezionali, che si finisca in carcere prima che venga pronunciata una sentenza definitiva. La “carcerazione preventiva”, come più crudamente la chiama la Costituzione, in realtà è una mera anticipazione dell'eventuale pena inflitta con la condanna passata in giudicato. È come se lo Stato scommettesse sulla colpevolezza dell'imputato. Tanto è vero che, secondo l'articolo 137 c. p., la carcerazione scontata in custodia cautelare si detrae dalla durata complessiva della pena detentiva eventualmente inflitta. Invece coloro che vengono assolti, come spesso accade, dopo aver sofferto ingiustamente la custodia preventiva vedono la loro vita rovinata, insieme a tutti i legami familiari, professionali e di amicizia. A ciò si aggiunga che lo Stato ( e, dunque, noi cittadini) in media spende all'anno circa 30 milioni di euro per ingiuste detenzioni.
Chi meglio degli avvocati del distretto di Corte d'Appello può ben conoscere l'operato del magistrato? Come ex consigliere del Csm posso affermare che il 99% delle valutazioni sui magistrati che arrivano dai distretti sono totalmente favorevoli, con espressioni elogiative che talvolta sfiorano quasi il ridicolo. Così il Csm non è in grado di valutare nel merito. Quindi cosa succede? Che prevale l'appartenenza correntizia. Ed allora, che ci siano anche gli avvocati a contribuire a giudicare l'operato dei magistrati è assolutamente opportuno.
Il quesito cerca di evitare che si possa essere candidati soltanto se si ha alle spalle una corrente. Eliminando questo vincolo si favorisce la possibilità di candidarsi, per dirla brutalmente, ai “cani sciolti”.
Dal mio punto di vista, questa legge, sotto molti profili, è quasi anticipatoria del percorso forcaiolo che abbiamo vissuto negli ultimi quindici anni. Essa impone un automatismo in materia di incandidabilità che ha travolto non soltanto politici famosi ma anche piccoli operatori sul campo, i quali poi sono stati magari prosciolti, ma con la carriera politica ormai bruciata.
Dipende da due fattori. Il primo: la riforma dovrebbe essere del tutto sovrapponibile al singolo quesito, e a me non sembra che sia così. Il secondo: occorre vedere con quale modalità la riforma viene approvata. Se il tema dei quesiti fosse oggetto di legge delega, in questo caso i referendum non sarebbero stoppati, anzi sarebbe ancor di più necessario votare. Come lei sa, infatti, non è infrequente che la delega non venga esercitata dal Governo, come accaduto – ad esempio - con la riforma Orlando dell'ordinamento penitenziario.
Visto che nei Consigli giudiziari siedono sia magistrati giudicanti che requirenti, mi stupisce che i giudici non temano di subire la pressione dei pm e questi ultimi non temano di subire la prevaricazione degli altri. La loro avversione a questa prospettiva è l'ulteriore prova che non hanno introitato cosa dice l'articolo 111 della Costituzione. Così non va bene, perché la magistratura non è un ordine avulso dalla società. Giusto difendere l'autonomia e l'indipendenza, ma ricordandosi che non vivono su un'isola deserta.
Sono convinto che, tutto sommato, la riforma Cartabia ai magistrati vada bene, anzi più che bene. Credo che queste minacce di sciopero servano quasi a concedere l'onore delle armi alle forze politiche che non sono state in grado di elaborare progetti riformatori più seri ed incisivi. Dopo tutti gli scandali che hanno interessato la magistratura che ora, purtroppo, in tutti i sondaggi vola molto bassa, ci si sarebbe aspettati una riforma profonda e radicale. Forse la magistratura ha più paura dei referendum.
Non è questo l’intento dei promotori, né certamente il nostro. La magistratura è un bene così prezioso in una democrazia matura che bisogna preservarla anche riformando ciò che non va. E siccome nessuno può dire che le cose vadano bene, come ribadito più volte dal Presidente della Repubblica Mattarella, lo status quo non può essere mantenuto. Mi stupisco nuovamente che non siano gli stessi magistrati, che spesso parlano di “autoriforma”, a proporre un cambiamento molto più spinto e severo di quello legato alla riforma in discussione in Parlamento.